10 Ottobre 2024
Words

Non più zingari politici, ora Zingaretti

La nuova incoronazione di Nicola Zingaretti a segretario del PD, sulle evidentissime ceneri del renzismo, non trasformerà rapidamente lo scontro tra PD e Lega+Fratelli d’Italia in un rinnovato confronto bilaterale destra contro sinistra. La resilienza elettorale del M5S, che ha una rete locale molto meno “leggera” di quanto si creda, sarà lunga almeno per due fasi legislative, almeno a livello  regionale o periferico. Tuttavia, sul piano nazionale (stando ai dati attuali), i “grillini” potrebbero calare di circa il 12% ad ogni elezione. Continuerà la sostanziale chiusura del PD all’interno delle aree urbane, di quelle centrali soprattutto. Il PD perderà sempre meno nei vecchi “distretti produttivi”, ma qui la rappresentanza vera, non localistica, sarà ancora della Lega. La fine di Forza Italia e la divisione delle spoglie del berlusconismo sarà, quindi decisiva, a destra e non solo. Solo un 1,4%, per ora, dell’area elettorale di Forza Italia andrà al PD e alle sue liste controllate.

Tutto è ancora da decidere, quindi, ma l’ottimismo della sinistra per la nuova crescita (nei sondaggi) del PD è comunque poco fondata. Non ci sono, peraltro, quote di sinistra ex-PD che segnalino, anche sul solo piano elettorale, un ritorno alle origini. Per ora, infatti, solo il 14,5% dell’area elettorale LEU (e altri, sempre a sinistra) mostra un qualche nuovo interesse per un nuovo Partito Democratico o per una alleanza elettorale stabile con il PD di Zingaretti. Tutto si giocherà sul carisma personale di Zingaretti e del suo gruppo dirigente. Ma, anche in questo caso, le rigidità elettorali a sinistra saranno molte e significative.

Invece, se torniamo indietro di qualche settimana è necessario analizzare a freddo i risultati delle primarie avvenute nel Partito Democratico, perché al di là dell’assemblea che ha sancito la nomina di Zingaretti è nelle primarie che dovremmo cercare i termini e le motivazioni dei risultati.

Il numero totale dei votanti è noto, anche se ancora molto impreciso: oltre un milione e mezzo di votanti, con 7000 seggi aperti, in Italia e all’estero. Rimane ancora una certa aleatorietà sui dati, che non fa ben sperare sulla efficacia delle procedure di controllo delle primarie.

Le regole per accedere al voto erano presenti, comunque, solo in un sito internet ad hoc. Si poteva votare dai 16 anni in poi e non vi erano ulteriori restrizioni. Che, comunque, non potranno non esserci alle elezioni vere e proprie. I voti per il Congresso del Partito, comunque, che sono da distinguere da quelli per le primarie, hanno coinvolto 6500 circoli e 189.101 votanti, pari al 50,5% del totale degli aventi diritto.

Molta partecipazione da “fuori” il PD, quindi, pochissima e comunque in calo quella degli iscritti e dei militanti. Iscritti che, comunque, sono diminuiti di 76mila elementi in due anni.  È però cambiata la geografia della attività politica dei circoli piddini. Nel Nordovest, per esempio, la partecipazione alle elezioni per il Congresso è stata del 76,5%, con una crescita di ben 15 punti rispetto all’anno precedente, e perfino del 30% rispetto al 2013. Il Sud, l’area a più alta partecipazione alle primarie negli anni passati, con il 70%, ora però arriva solo al 46%. Forte presenza, quindi, del Partito Democratico nelle grandi città, con una “spalmatura” abbastanza omogenea tra Nord e Sud, diminuzione forte in tutto il Meridione. Dove si ripete, per il PD, la classica separazione tra città e campagna e tra metropoli e piccoli centri.

In questa struttura generale dei dati, Nicola Zingaretti vince le primarie con il 47,4% dei voti, poi arriva il tandem, spesso molto litigioso, tra Maurizio Martina e Matteo Richetti, con il 36,1%, e infine terzi sono i “renziani” Roberto Giachetti e Anna Ascani, con l’11,1%. Zingaretti è arrivato primo in tutte le aree più importanti del paese, ma ha vinto bene soprattutto nel Meridione, dove supera Martina del 27%, pur se lo scarto medio su tutto il territorio nazionale, tra i due, è solo dell’11%. Giachetti, comunque, è ben rappresentato soprattutto nel Nordovest (17,4%) mentre ha un seguito molto minore al Sud, con l’8,1%.

In ogni caso, i votanti alle primarie 2019 sono in diminuzione quasi ovunque. Con le eccezioni del Lazio, area di riferimento di Zingaretti, che è anche presidente della Regione Lazio, appunto, e del Veneto, del Molise e, perfino, del Trentino Alto-Adige.

Crollo verticale della partecipazione alle primarie nelle vecchie “regioni rosse” del Centro, con ben 966.000 votanti nel 2013 e, oggi, solo 414.000. La “cintura” delle vecchie regioni rosse era il 35%, del PD, oggi vale il 25% di tutto il partito. Il sud va, ancora, un pochino meglio: ai tempi di Matteo Renzi, il Meridione valeva il 34% dei votanti delle primarie, oggi è arrivato ad essere il 43% del voto alle primarie. Una evidente trasformazione antropologica dell’”elettore medio” del Partito Democratico.

Ma, tra il 2017 e il 2019 il PD, lascia per strada due milioni e mezzo di voti, lo si ricordi bene. Nessun partito politico sopravvive senza danni a un salasso di voti così grande e rapido. E, in particolare, un partito pensato per essere “leggero” e evitare di essere preso in mano da un solo gruppo dirigente. Quindi, vi sono le indicazioni di un nesso positivo tra l’aumento della partecipazione alle primarie e le tendenze di voto, che sono leggermente positive, a giudicare dai sondaggi. La cosa prima non si verificava, anzi, la crisi chiamava altra crisi. E ciò accade proprio mentre si espande il PD come “partito del Sud”, ma con un tasso di crescita che, in linea di principio, non copre i voti in fuga dall’area delle vecchie “regioni rosse”.