20 Aprile 2024
Culture Club

Un tempo per stare in casa, e uno per uscire

Tutto passa su questa terra, dice il prete nella telemessa domenicale, confortando i fedeli: “C’è un tempo per morire e un tempo per vivere, uno per chiudersi in casa e uno per uscire…!” Come al solito, io mi sento perfettamente d’accordo: anche se dovessimo stare chiusi per altri dieci o venti o trent’anni in casa, sono sicuro che tutto andrà bene e prima o poi usciremo più forti, più obesi, più pallidi, più vecchi, più sordi, più muti, insomma più pronti anche per raggiungere il cimitero, che in fondo non è altro che una casa, forse più fredda e piccola ma sufficiente, e dalla quale finalmente non usciremo più.

Tutto passa su questa terra. Nella fase più dura delle restrizioni ho dovuto scegliere una stanza del mio appartamentino in cui chiudermi. Poiché ho un bilocale, non ho faticato molto a preferire il salotto con angolo cottura, dove ho sistemato un divanoletto e la televisione campeggia sovrana, con una manciata di libri che rendono più pittoresca la parete; senza dire che il segnale wifi è anche migliore! Avevo sistemato un pitale sotto la poltrona, e tre-quattro volte al giorno lo svuotavo nel bagno, dove avevamo il permesso di andare ogni sei ore, compresa l’eventualità di una diarrea o di un’epistassi, sempre con autocertificazione da esibire davanti allo specchio. Fra il divanoletto e il televisore, sistemai un tappeto dove sgranchirmi le ossa che cominciavano a scricchiolare, seguendo le istruzioni di un corso accelerato online di stretching per sedentari cronici. Prima della pandemia avevo un televisore da 22 pollici, roba da snob ipovedenti; ma di lì a qualche mese decisi di acquistarne uno da 48 perché potesse influenzarmi come si deve in ogni momento della giornata, facendomi sentire parte integrata del sistema che mi proteggeva da ogni virus e soprattutto dalle fake news, dai disinformatori seriali, dagli intellettuali indignati, e infine da me stesso, e faceva di me un cittadino organico per la salute mia, dei condomini, dei concittadini e tutti quelli che ci proteggono.

A quei tempi, il pericolo che noi fossimo contagiosi a noi stessi era una dura realtà, ma fummo accuratamente disinfettati e tamponati. Io per precauzione coprii tutti gli specchi, tranne quello del bagno: non si sa mai che la figura in cui credevo di riconoscere me stesso potesse suggestionarmi a tal punto da contagiarmi, come capitò a qualcuno. Neanche l’arrivo provvidenziale di un drone che di tanto in tanto mi osservava benevolmente dall’oblò del bagno, avrebbe potuto salvarmi: sarebbe bastato un attimo! Una volta capitò a un vicino di casa che si fermò a contemplare la sua immagine riflessa nella vasca da bagno che si andava riempiendo: la strana figura che vedeva ondeggiare nella coltre di soffice schiuma sollevata dal getto di acqua calda cominciò a ricordargli qualcuno. Per fortuna arrivarono in elicottero le forze dell’ordine che riuscirono ad allontanare il malcapitato dal contagio per autosuggestione. Si sentiva il megafono: “Si tenga lontano da sé stesso, non faccia assembramento con sé stesso! Chiuda gli occhi, e venga fuori a braccia alzate e soprattutto con la mascherina ben applicata anche sopra il naso!” Sbirciai dall’oblò del mio bagno, ma la visuale era limitata; sentii un tonfo, come di un corpo che cade da qualche altezza, e poi silenzio. Il pericolo era passato.

Non so quanto tempo durò questa ordinanza. In capo a qualche lustro, tornammo a respirare l’aria ammuffita delle altre stanze. Le finestre si potevano aprire ma solo a ore determinate. A me in fondo andò bene, non avevo la casa da condividere con nessuno. Le coppie in crisi, che abitavano in monolocali, non la passarono liscia. Qualche famiglia numerosa ebbe dei problemi, ma una nuova ordinanza con chiose e commi correttivi chiarì che si poteva utilizzare anche il garage, il solaio, abitabile o meno, e lo sgabuzzino per la legna. Ci si sarebbe potuti chiudere anche in un bagno, purché superiore ai 10 mtq, e avesse una vasca dove sistemarsi per la notte. Alcune famiglie furono smembrate tra più alberghi adattati per l’occasione. Pochi si suicidarono. Non andò meglio a coloro che abitavano in ville lussuose con più vani, più piani, decine o centinaia di ettari, casotti, gazebo, piscine, portici, cappelle private, pollai, porcili e annessi. Dove sistemarsi? Qualcuno, non potendo rinunciare alla nuotatina quotidiana piantò una canadese presso la piscina con fornelletto elettrico per eventuali fritturine di pesce; ma andava bene anche per il pollaio; per quanto riguarda la cappella privata era necessaria la dispensa del vescovo.

Passato quel periodaccio, riguadagnai il mio divano per i miei sollazzi. Là ero solito dare ricevimento agli amici, e gli argomenti spaziavano dalla politica all’economia all’ingegneria genetica alla cronaca rosa. Assumendo alcune posizioni sul divano, riuscivo talvolta a ricordarmi di sepolti istinti. Amabilmente crollavo di stanchezza alla fine della giornata; altre volte, invece, mi frollavo in una pennichella con sottofondo di mugugno mediatico ricco di amorevoli raccomandazioni a fare la mia parte, cosa che io facevo con diligenza. Non fummo mai così informati: potevamo sapere tutto e il contrario di tutto. Ovviamente c’erano partiti diversi in merito a questo “tutto” che non ho mai capito cosa fosse. Erano in diversi a rivendicarne il copyright. Il dubbio principale era se il tutto poteva contenere anche il suo contrario. Mi pareva di sentire ancora i discorsi di alcuni discendenti dei càtari sopravvissuti alla purga di Papa Innocenzo III. Ormai ridotti a passare le giornate all’ombra di qualche chiesa sconsacrata, li sentivi sbisoriare fra loro il busillis dei busillis: se il Signore è onnipotente perché permette il male? Forse questo non è già contenuto nel Bene? Mah, io sono uno qualunque, e un giorno mi rivolsi a Frate Cipolla per chiedergli cosa ne pensasse: “Sottigliezze!”, esclamò il caro frate, e aggiunse con buon senso, “Se pensi troppo a queste cose o ti viene il mal di testa o qualcuno ti rompe la testa a legnate”. Ne ho fatto tesoro: se un giorno ti dicono che è meglio portare la mascherina fino al naso perché anche una scoreggia può contagiarti, perché non crederci? Vero che allora circolò la notizia che il contagio poteva arrivare anche via udito; ragion per cui non restava che un buco per respirare. A quel punto nessuno disse più nulla.

Io sono sempre per la via più comoda: farsi poche domande, possibilmente nessuna. Ed è per questo che ordinai, in teleshopping, un divano più comodo a L, in maniera da poterlo attrezzare come letto-mensa-salotto-studio con un frigo-bar incassato nel bracciolo destro e un bollitore nel bracciolo sinistro, con cui servirmi senza sospendere i concitati party sui tempi di cottura dell’abbacchio al forno sull’età dell’agnellino da sacrificare. Oggi, i divani a L più aggiornati hanno anche un pitale portatile, e godono di buoni sconti. Grazie a quel divano cominciai a comprare ogni ben di Dio per tenermi agile e snello in vista della fine della 4.958.586esima quarantena, e tornare, per l’estate, a calpestare la sabbia fine e calda di una spiaggia sovraffollata ma accuratamente disinfettata.

Un giorno capitai per sbaglio, lo giuro (non voglio passare per disfattista!), su un canale dove un tizio, all’astuta domanda di una giornalista dalle forme opulente, rispose con un filo di voce, gli occhi bassi: “Dio, non lasciarmi straniero sui confini del mondo”. Era evidente che non aveva capito quanto è bello restarsene a casa!