27 Luglio 2024
Words

Alla corte di Bernard Henry Levy…

Ecco uno dei motivi per cui spesso la sinistra perde in varie parti del globo. Gli intellettuali, o presunti tali, spesso sono una delle interpretazioni: più intellettuali che parlano bene e razzolano male ci sono a sinistra, più la sinistra perde. Non è un’equazione perfetta, ma ci casca molto vicino.

Bernard-Henry Lèvy ha avuto un merito indiscusso: ha iniziato la moda dei filosofi prêt à porter che oggi riempiono le televisioni, come anticamente accadeva con Wanna Marchi e le sue creme miracolose. Sanno tutto naturalmente, ma soprattutto si piccano di conoscere la politica. È il vecchio verbiage da compartimento ferroviario, però con un sopracciò e un gergo che li fa apparire dei finissimi tecnici, come accade in Italia con effetti esilaranti e iper-semplificatori.  Moltissima boria; ingrediente necessario, meglio ancora se si è figli di papà, infatti non guasta mai il bennato che fa il gauchiste o anche il “frugale”; inesperienza totale, salvo qualche assemblea capeggiata nel ’68 per ghermire ragazze; prima si fa paura alla borghesia poi ci si fa stipendiare dalle classi dominanti, tra i gridolini delle signore dei salotti.

Ma prima che cosa diceva? Lévy era un sostenitore dei khmer rouges, quelli che uccidevano immediatamente chi, tra i cambogiani, sapeva parlare anche il francese o che solo portava gli occhiali. Il capo del Partito Comunista della Kampuchea, Pol Pot (Politique Potentiel) ovvero Saloth Sar, non era però un contadino cambogiano, ma un poveretto che aveva studiato tra mille mestieri proprio quelle stesse scemenze che stava studiando Lévy e negli stessi anni: Barthes che dice che le regole grammaticali sono “fasciste”; la società del controllo totale immaginata da Michel Foucault; la decostruzione concettuale; tanto altro ancora. Mi ricordo Foucault che va a scrivere sulla Rivoluzione sciita di Khomeini nel 1979: non ci capì una beata mazza, naturalmente, confondendola con una rivoluzione di tipo marxista. Ma il tutto della prosopopea deve essere ammannito con due caratteristiche: deve fare tanto rumore e deve essere massimamente paradossale. Il ritorno alla purezza della vita nelle campagne cambogiane, quindi, ma da dove la droga prodotta dal regime di solito partiva verso gli “intellettuali” nordamericani. Dire una cosa sola, debitamente assurda, e poi tenere il punto, con sempre maggiore boria: ecco la tecnica giusta. I borghesi allora andavano proprio uccisi, nel senso non metaforico del termine. Sarà stato un complesso di Edipo in ritardo, vista la ricchezza del genitore di Lévy.

Poi, siccome il ’68 francese è stato troppo breve e aveva a che fare con il tandem De Gaulle-Pompidou, non due bambini come i rivoltosi, ci si ricicla subito. L’ambasciatore Maccotta, che era il nostro Ministro a Parigi proprio nel ’68, mi ha sempre detto che l’élite francese pensava, tutta, che il ’68 fosse un “regalino” degli americani, decisi a destrutturare un Paese che non eseguiva, quasi mai, gli ordini di oltre Atlantico. C’è una parte di verità.

Poi Bernard-Henry scrive il suo primo libro di viaggi e politica, sul Bangla Desh, dove scopre l’acqua calda del nesso tra nazionalismo e rivoluzione comunista in Asia. Se avesse letto Lenin, invece di citarlo solamente, se ne sarebbe accorto prima. Naturalmente, è a favore del “Bengala Libero”, il più bel capolavoro dei Servizi sovietici in quell’area. Ma non lo sa. Poi si scopre (una combriccola bisogna pur averla) nuoveau philosophe. Critica l’autoritarismo dei “socialismi reali”, cosa che sapevano tutti da sempre. Mi viene in mente quella battuta che feci allo storico Furio Diaz, uscito nel ’56 dal PCI: “Ma dove credevi di essere, nel Partito Repubblicano?”.

Poi, la scoperta dei boat people che scappano dal Vietnam del Nord, e di cui tantissimi furono raccolti, con una crociera eroica, dalla Marina Militare Italiana. Un conto è fare, un altro chiacchierare. E ora anche il mito gauchiste del Vietnam sparisce. Ma la carriera di parlatore in pubblico si impenna. Bernard-Henry scopre i famosi “diritti umani”. Si produce in viaggi nei Balcani, dove ripete il solito verso: la colpa è tutta di Milosevic e gli albanesi kosovari sono solo vittime, o anche gli islamici di Bosnia, inventori per primi del jihad novecentesco, e infatti allora Osama bin Laden a Sarajevo era di casa.

Mai un dubbio sul fatto che il reale è più grande e complesso della sua boria. Un “agente di influenza”, come si dice in gergo, ma sempre di basso livello. Poi, tramite amicizie varie, riesce a “sensibilizzare” quel buzzurro di Sarkozy per la situazione libica, rovinata da quel “tiranno” di Gheddafi. Meraviglia qui il semplicismo, quasi infantile, delle definizioni politiche. È Lévy parte della propaganda che demonizza (la famosa reductio ad hitlerum) il Raìs libico, che ha appena prestato una paccata di milioni proprio a Sarkozy, per la “campagna elettorale”. Inizia la manipolazione informativa francese. È jihadista la rivolta nel carcere di Abu Salim, poi utilizzano i jihadisti di ritorno da Afghanistan e Iraq per lanciarli contro le forze regolari di Tripoli. Le “repressioni”, parola sessantottina, di Gheddafi, che si riveleranno una fake news, girano sui giornali di tutto il mondo e spingono i Paesi europei a difendere i jihadisti e eliminare il “tiranno”. Roba da ridere. La Cirenaica ha avuto, lo ricordo, la maggior quota di jihadisti, in rapporto al totale della popolazione, di tutto il mondo islamico. Arrivano poi i “ragazzi” dei Servizi francesi che armano i jihadisti, notoriamente molto attenti ai “diritti umani”. Il resto è cosa nota: una guerra originata anche dal Qatar, che manda per prima le armi a Bengasi, con oltre 50.000 morti e nessuna soluzione in vista, salvo la perdita, per l’Italia, di ogni peso nel Mediterraneo. E la probabile svendita dell’ENI, per ora salvata. Forse era questo il primo sogno di Sarkozy. Insomma, dove c’è da rivestire di retorica stinta cose ben più grandi di lui, che dubito perfino conosca a fondo, lì arriva BHL.

Mi ricordo anche una sua esilarante intervista alla TV italiana, con Lucia Annunziata, in cui la giornalista iniziò a recitare l’incipit della “Certosa di Parma” di Stendhal, che ovviamente BHL non riconobbe e poi, come tutti gli studenti furbastri, dice “sì, sì, me lo ricordavo”, intanto roteando le mani come se ascoltasse una musica sublime. Un perfetto cialtrone. Chissà se sa che la “Certosa di Parma”, intesa come monumento, non esiste… Gente come lui ce n’è in ogni dove: i filosofi da sbarco piuttosto ignorantelliin Italia ormai non si contano.