10 Novembre 2024
Voice of Jerusalem

Israele e la sinistra che non c’è

Martedì scorso il Presidente d’Israele Reuven Rivlin ha reso esplicita la crisi politica che il paese sta di nuovo attraversando: “Come ogni altro cittadino, sto seguendo con grande preoccupazione gli sviluppi in Parlamento e la continua destabilizzazione di tutti i partiti di una coalizione di governo già fragile”.

Si dice che Benjamin Netanyahu abbia deciso di bocciare il bilancio 2020. Senza quello, Israele sarà gettato in nuove elezioni (ci sono state lo scorso due marzo, ed erano le terze in un anno). Secondo molti commentatori, il ragionamento che spingerebbe Netanyahu a nuove elezioni è il seguente: a gennaio 2021 ci sarà il processo per corruzione contro di lui; a quel punto si cercherà di forzare l’Alta Corte a dichiararlo non in grado di governare mentre dovrà sedersi tre volte a settimana sul banco degli imputati. Un’elezione in questo momento è molto rischiosa – i primi sondaggi dicono che il Likud perderebbe 4-5 seggi dei suoi attuali 36, e il magico numero di 61 seggi su 120 al Parlamento per la quarta volta non un sarebbe raggiunto – ma l’alternativa è peggiore, per Netanyahu: lasciare il ruolo di Primo Ministro a Benny Gantz è fuori questione.

Con la pandemia che è risalita, con l’economia che peggiora sempre più, le elezioni sono praticamente un disastro. Ma come si è arrivati a questo, negli anni? A una destra, in grande parte religiosa e messianica, che guida il paese; a un Primo Ministro accusato di corruzione e di frode che ha un grande consenso, anche se gli manca quel poco per avere la maggioranza; a un’annessione annunciata ma poi scomparsa dai radar perché è molto meglio lo ‘status quo’ che per molti assomiglia a un’apartheid? Dov’è finita l’opposizione? Dov’è la sinistra, che ha costruito il paese e lo ha guidato per anni?

La sinistra oggi è pressoché scomparsa in Israele. Alle scorse elezioni la coalizione di sinistra Labor–Meretz–Gesher ha preso poco meno del 6%, e ancora continua a dividersi: mentre il Labor con i suoi tre seggi è entrato nel governo, gli altri due partiti sono all’opposizione. E i sondaggi certo non li premiano: vero è che Meretz da tre andrebbe a sette-otto seggi, ma Labor e Gesher rimarrebbero sotto la soglia del 3,25% e ciò non permetterebbe loro di rientrare in parlamento.

Ovviamente ci sono spiegazioni semplicistiche, ma che un fondo di verità ce l’hanno: la sinistra è in crisi in tutto il mondo occidentale; e per quanto riguarda Israele un mio amico qualche anno fa mi fece questo ragionamento: gli ortodossi e i coloni fanno sei figli di media, mentre i laici tre, è ovvio che la destra prenderà il paese, basta aspettare. Ma ci sono questioni più profonde.

 

La caduta della sinistra, e l’ascesa della destra estremista che si è poi saldata con quella moderata, è iniziata con l’assassinio di Rabin nel 1995, il vero momento in cui tutto è cambiato. Carmi Gillon, oggi un arzillo vecchietto ma il capo dello Shin Bet – l’agenzia di spionaggio per gli affari interni – quando fu assassinato Rabin, in un’intervista a Haaretz pochi giorni fa ha detto: «Non pensavo che qualcuno di Gush Emumin [il Blocco dei fedeli, che incoraggiò gli insediamenti nei territori occupati nel 1967 perché, secondo la Torah, Yahweh li aveva concessi al suo Popolo Eletto] avrebbe assassinato un ebreo. Mi sbagliavo. Forse l’assassino di Rabin non era un suo membro, ma quello era il suo spazio ideologico». Gillon è certamente di parte – «sono il più grande sostenitore di Rabin» – e non ama Netanyahu: «qualsiasi cosa tocchi, il mare brucia; è intrinsecamente cattivo». Già negli anni ’80 Gillon parlava di come i coloni stessero aumentando la loro influenza, di come gente che era tenuta sotto sorveglianza diventò poi benvenuta nell’ufficio del Primo Ministro. Ma conclude con parole litiche: «Israele avrebbe dovuto essere uno stato democratico, ma il processo che è iniziato nel 1948 con la Dichiarazione d’Indipendenza si è fermato a metà strada. Nessuno si sarebbe aspettato una destra ideologica e religiosa salire al potere. Ma uno stato ‘ebreo’ e uno ‘democratico’ non possono coesistere».

Il vero fallimento della sinistra è la mancata fine dell’occupazione di Cisgiordania e di Gaza, la mancata realizzazione della visione ‘due popoli due stati’. Secondo Zehava Galon, a suo tempo a capo della sinistra di Meretz, afferma che dopo l’assassinio di Rabin la sinistra ha fatto errori; il primo fu di non andare subito ad elezioni. E poi «dire sempre che se non avessimo chiuso con l’occupazione e realizzato la soluzione ‘due stati’, il mondo ci avrebbe trattato come lebbrosi e imposto sanzioni. Ma il mondo non lo ha fatto. Abbiamo sempre spiegato che se non ci fosse stato un accordo diplomatico e noi avessimo continuato a imporci su un altro popolo, ci sarebbe stato un costo, ma questo costo non c’è stato».

Per Galon «noi abbiamo provato a spiegare la tesi che tutto è interconnesso, che se lotti per l’occupazione lotti per la giustizia sociale, per la separazione fra Stato e religione, ma non abbiamo convinto la popolazione». Meretz e il Partito laborista hanno completato il loro compito, e la sinistra deve cambiare il suo modo di pensare, altrimenti non ci sarà spazio.

La sinistra radicale, pacifista e anti-occupazione, si è sciolta come neve al sole, in pochi anni. Molti dei loro leader, esausti e zittiti, hanno deciso di emigrare, hanno perduto la speranza di un cambiamento e scelto l’esilio. «Ricordo bene il periodo degli Accordi di Oslo, l’euforia», dice Eitan Bronstein, che fondò l’associazione Zochrot (Ricordare) che mirava a diffondere tra gli israeliani la coscienza sulla Nakba (la catastrofe, come i palestinesi chiamano la loro cacciata da quel territorio e la nascita d’Israele), e che con sua moglie si è trasferito a Bruxelles. «In quegli anni c’era un sentimento che forse il conflitto si sarebbe risolto e forse ci sarebbe stata la pace, ma quel sentimento è sparito per molto tempo. Gente politicamente simile a me sente di essere stata sconfitta, non vede un orizzonte di vera pace; c’è qualcosa d’insano in Israele, guardarlo da lontano è meglio». Ma hanno lasciato anche i fondatori di altri movimenti quali B’Tselem (il centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei Territori Occupati), Breaking the Silence e 21st Year (organizzazioni anti-occupazione), Coalition of Women for Peace, Matzpen, Bimkom – Planners for Human Rights.

 

Chi sono i responsabili del fallimento della sinistra e della lotta contro l’occupazione? Ahmad Tibi, uno dei capi della coalizione araba in parlamento, è molto critico con il Partito laborista. «Era al potere quando l’occupazione iniziò ad essere effettiva nel 1976. Iniziò a usare eufemismi, propagò il valore dell’insediamento, e fu quindi facile aggirarli per chiunque fosse alla sua destra. La storica ingiustizia dell’occupazione è responsabilità di generazioni di laboristi. La discussione sul futuro dei territori occupati era fra la destra e la sinistra. Ora è fra Netanyahu e il Consiglio degli Insediamenti, o fra Israele e gli Stati Uniti. Chi usa oggi il termine ‘occupazione’ in Parlamento? Solo la coalizione araba».

Secondo Ahmad Tibi, la soluzione rimane sempre quella dei due Stati, uno palestinese e uno israeliano. «Alcuni rifiutano l’espressione ‘Stato israeliano’ e ne vogliono uno ‘ebraico’. Non sono d’accordo, le espressioni ‘ebraico’ e ‘democratico’ sono un ossimoro. Uno Stato israeliano è uno Stato democratico in cui ognuno è uguale, e in cui gli ebrei possono votare chi vogliono e andare al potere non per la loro appartenenza ma perché sono una maggioranza che vince le elezioni».

Intanto aumentano le manifestazioni di protesta contro Netanyahu. Al grido di ‘scuoteteli dalle loro poltrone’, le manifestazioni sono organizzate da gruppi giovani che potremmo forse chiamare la ‘nuova sinistra’: movimenti come Black Flags, Crime Minister, Culture Shock, Wake Up Israel, Women’s March, e un gruppo di attivisti LGBTQ che si riuniscono sotto il nome di Cock Shock, manifestano contro la corruzione del Primo Ministro, l’incapacità a gestire la pandemia, la crisi economica che colpisce il paese. Si scontrano con gruppi di destra, attivisti del Likud, il club La Familia (capita l’assonanza?) di sostenitori della squadra di calcio Beitar Gerusalemme. Il movimento Black Flags ha affermato: «questo è un chiaro messaggio al colpevole Netanyahu che il suo tempo è arrivato. Abbiamo ricevuto prova di cosa il suo regime vuole: indebolire la Knesset e la democrazia, sopprimere la protesta, incitare contro ampi segmenti della nazione, occuparsi di materie criminali e di una campagna senza fine di bugie. Il completo fallimento della gestione del coronavirus già basta per condannare questo governo. I cittadini meritano un Primo Ministro che si occupi dalla mattina alla sera di fermare la pandemia e di far ripartire l’economia, non a condannare chi guarda oltre sé stesso».