13 Ottobre 2024
Words

Strangers talk only about the weather…

Dopo esserci rallegrati per il caldo autunnale, che ci fa risparmiare sul gas, dovremmo tornare a preoccuparci del riscaldamento climatico. I dati sono allarmanti ma ci facciamo meno caso. C’è la guerra, c’è l’inflazione. Siamo fatti così. Viviamo di contraddizioni. Si apre in Egitto, a Sharm el-Sheikh, la Cop 27, la conferenza sul clima, in un’atmosfera che definire depressa è poco. Nel frattempo, il governo del Cairo reprime, nel silenzio internazionale, ogni forma di dissenso, anche ecologica. Si combatte di più la libertà di pensiero delle emissioni nocive. Il caso Regeni (dimenticato) sembra non aver insegnato nulla.

Le attese sui risultati del summit sono modeste. Pesa soprattutto la questione dell’aiuto che i Paesi più ricchi si sono impegnati a garantire — già dal 2009 con la conferenza di Copenhagen per 100 miliardi di dollari — ai più poveri per i quali la transizione energetica è un lusso. L’amara realtà è che sembra lo stia diventando anche per quelli più agiati, costretti a sostenere le bollette salate di famiglie e imprese e, di conseguenza in difficoltà nell’onorare le intese ribadite a Glasgow e a Milano soltanto un anno fa. «Di questi 100 miliardi — spiega Carlo Carraro, unico italiano nel direttivo Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) — 84 sono stati già impegnati, ma gli erogati sono molti, molti di meno. Non è facile avere dei progetti, né valutarli e poi approvarli. Il tempo per intervenire si restringe, l’attenzione al tema purtroppo si riduce».

Un recente rapporto dell’Ipcc denuncia poi i ritardi negli investimenti per contrastare le pressoché certe conseguenze del riscaldamento climatico nei prossimi anni. Il nostro Piano nazionale di adattamento, nonostante gli sforzi dell’ex ministro Enrico Giovannini, è fermo a una bozza del 2017.

I Paesi industriali sono tutti a caccia di fonti fossili che solo un approccio ingenuo e idealista poteva ritenere — anche senza una guerra — facilmente sostituibili con le rinnovabili di cui abbiamo però — ed è questo il punto — ancora più bisogno. Nel momento in cui si affronta l’emergenza dei costi dell’energia, in chiave di lotta all’inflazione, non sono ammesse distrazioni sulla transizione. È ancora più necessaria soprattutto se vogliamo arrivare in Europa, nel 2030, all’abbattimento del 55 per cento, rispetto al 1990, delle emissioni di gas serra. L’Unione però — bene ricordarlo — è responsabile solo dell’8 per cento circa della produzione di anidride carbonica nel mondo. Il nucleare, nei Paesi in cui c’è, piaccia o no, è necessario. I costi, non solo economici ma soprattutto sociali, della transizione possono essere attenuati anche ricorrendo a produzioni come quelle, poco gradite dagli ecologisti più puri, dell’uso delle biomasse, del trattamento dei rifiuti urbani, industriali e agricoli. L’Italia ha un vantaggio competitivo, nell’economia circolare, che non va sottovalutato. Sono produzioni più pulite del carbone che, a differenza del nucleare, in questo momento in cui se ne fa per necessità un uso sempre più crescente, non ha oppositori. Nemmeno tra i verdi.

Il governo Meloni ha scelto di privilegiare la sicurezza energetica. Il ritorno all’estrazione di gas nazionale era inevitabile. La transizione energetica è invece sparita, almeno dal lessico ministeriale, ma non bisogna dimenticare che è parte integrante della sicurezza. Alla Cop 27 l’Italia figura tra i Paesi più virtuosi in un’Unione che ha un obiettivo di decarbonizzazione ormai fissato per legge. Se non vuole apparire — dopo il cambio di esecutivo — come un partner meno determinato nella lotta al riscaldamento climatico o peggio, pentito, qualche segnale forse è il caso che lo dia. Soprattutto perché c’è un Paese che alla transizione energetica, alla scelta delle rinnovabili, crede e ha già fatto, in molti casi di necessità virtù. Risparmia energia più di altri, con maggiore efficienza. La scelta green delle imprese si diffonde con ampiezza e velocità sorprendenti. Non perché gli imprenditori siano diventati tutti d’incanto dei verdi sfegatati. Ma perché conviene. Le aziende che rispettano i criteri di sostenibilità vanno meglio, creano più lavoro e hanno un costo del capitale più basso. Piacciono di più ai loro clienti. Questa spinta dal basso è formidabile. Un delitto non assecondarla. Ma quella potenzialmente più decisiva viene dalle comunità, dagli investimenti nelle rinnovabili che possono decidere gruppi di cittadini organizzati. Anche qui non ci troviamo di fronte ad ecologisti irriducibili, a fanatici del solare. Oltre al vantaggio di godere degli incentivi fiscali e di avere energia a buon mercato, gli aderenti alle comunità possono persino guadagnarci vendendo il surplus di elettricità prodotta al Gse, il Gestore dei servizi energetici. E, particolare non secondario, aiutare le famiglie in difficoltà in un virtuoso patto solidale. Delle cento comunità mappate nel giugno scorso da Legambiente, solo 16 erano arrivate a completare l’iter autorizzativo, e appena 3 avevano ricevuto l’aiuto statale. Il governo dovrebbe dar corso, con celerità, agli ultimi provvedimenti attuativi. Non solo, potrebbe farne una bandiera civica, un segno della propria azione politica a favore dell’ambiente.

Il governo Draghi ha fortemente accelerato i processi autorizzativi di impatto ambientale degli impianti fotovoltaici e dei parchi eolici, ma la potenza installata — come denuncia l’ultimo rapporto di GreenItaly 2022 — è ancora molto più bassa di quella di altri Paesi. Se Meloni vuole fare del Mezzogiorno l’ hub energetico d’Europa (accontentiamoci dell’Italia stavolta), un cambio di passo è indispensabile, urgente. E va sciolto il grande equivoco delle Regioni, alcune gestite dal centrodestra, che di rinnovabili sembra non ne vogliano sapere tanto, a volte con un convergenza bipartisan , su altri temi del tutto inimmaginabile. Le conferenze dei servizi sono ostaggio dei più lenti e riottosi. La Puglia ha escluso la possibilità di parchi eolici offshore — distanti dalla costa — al tratto di mare per il quale i progetti sono più numerosi, cioè tra Brindisi e Lecce. Anche la Sicilia, di fatto, non li vuole. La Sardegna, oltre ad ostacolare l’elettrodotto sottomarino che dovrebbe unirla a Campania e Sicilia, vede grande compattezza nel contrastare quelli che vengono chiamati «predoni del vento» o «speculatori dell’eolico». Risultato: è l’unica Regione che continua ad andare a tutto carbone. Come pubblicità per un paradiso del turismo non c’è male. Avanti così.

[di Ferruccio De Bortoli – da Corriere della Sera]