27 Luglio 2024
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Pierantonio Pardi, Bailamme metastoria fabulosa, Editore Porto Seguro, Firenze 2022

Bailamme è uscito, per la prima volta, nel 1983. Questa di cui mi occupo e discuto criticamente adesso è la ristampa che risale all’ aprile 2022. Pierantonio Pardi l’ha voluta parendogli questo il modo per tornare sui suoi passi, per misurare lo stato della letteratura, oggi, a distanza di quasi quarant’anni dalla prima edizione, in un contesto dove ormai sono di nuovo centrali, dopo agonie e decessi, le trame con tanto di gallerie di personaggi con ruoli a schema fisso e gli autori a loro proprio agio a grufolare nei diversi boschi del reale o del possibile.

Fra l’altro, è bene aggiungere che il “riflusso”, l’eterno ritorno, la restaurazione, il congresso di Vienna delle arti era cominciato proprio dagli anni Ottanta, quelli della prima edizione, con il recupero delle antiche “maniere”. In particolare, due generi letterari avevano occupato, quasi militarmente, lo spazio pallido e bianco della pagina, della tela, dello spazio creativo dove erano stati azzerati, sterminati Fausti e Anne, Metelli, Viole, borgatari Alessi e Tarquini per noia, per odio nei confronti della routine esistenziale: il romanzo storico, dico, quello resuscitato da Umberto Eco, proprio nel 1980, un uomo solo al comando copertina rossa firmata Bompiani, forse desideroso di rimediare al suo nichilismo giovanile, e al seguito, poi, Italo Alighiero Chiusano, Luigi Pederiali, Luigi Malerba, persino Carlo Cassola per fare il nome dei più intelligenti, e il romanzo poliziesco o tutti e due i generi spesso fusi con investigatori in gonnella frateica in mezzo a enigmi congegnati da maestri del complottismo sempre tristemente affranti dal peso giudaico massonico o quasi.

E ancora di più, nasce in questo periodo quella che poi sarà definita la “nuova narrativa”, a partire da Altri libertini (1979) di Pier Vittorio Tondelli, Boccalone (1980) di Enrico Palandri, Casa di nessuno (1981) di Claudio Piersanti: tre romanzi che tornano a raccontare storie, ma agiscono sul linguaggio con la vera rivoluzione che portano questi scrittori giovani, cioè lingua tradizionale contaminata dai gerghi giovanili e politici, con storie che raccontano le condizioni urbane delle n uove generazioni.

SÌ, le date lo dicono con chiarezza, Piero si era avvicinato e legato (per amore per la creatività enigmistica, pura e protomatematica, che era stata dell’Oulipo e del famigerato gruppo ’63) all’idea terribile e assoluta, tragica e melodrammatica, della morte dell’arte e dell’azzeramento dei generi proprio quando i Maestri dello sperimentalismo, i teorici del “nichilismo”, della trucida radicalità avevano ritrovato le voci antiche, le “maniere” della tradizione, sentivano di nuovo il richiamo delle Muse. Ricordo benissimo le nostre (di ragazzacci di piazza Dante, discipulodromo a due passi dalla Facoltà di Lettere) discussioni rapite, affrontate con la stessa espressione solenne e preoccupata delle anime del Giudizio Universale del Buonarroti dove dannati e salvi, sconvolti dall”ignoto e dal mistero, sapendo che il giovane Cristo imberbe, con un gesto, avrebbe vanificato il “vero”, la materia, l’esistere, il definito o almeno il definibile sembrava di domandassero come sarebbe stato il mondo della non misura, il Niente.

E noi, al tempo, studenti, neolaureati, dottorandi ma, tutti, curiosi di periferia, avevamo assistito per anni alle pagine bianche, alle potenti opere poetiche sostituite da schegge di versi, da parole solitarie, sospese sul nulla eterno. Avevamo visto scomparire dalle tele oggetti uomini persino il colore, cifra indiscussa, radicale algebrica della pittura, avevamo valutato l’alleggerirsi delle sculture attraverso l’uso della cartapesta, del legno, della stoffa “fissata” dalla calcina. Avevamo studiato riflettuto su vari teatri dell’assurdo e dell’impossibilità ricchi di vistosi sdoppiamenti in palcoscenico e duelli di fioretto e di clava tra attore e personaggio. Insomma eravamo stati testimoni della deriva, del naufragio, della dissolvenza dei sistemi artistici e non potevamo che rifiutare il ritorno mesto alla tradizione.

Ecco perché Bailamme ruggì quando ormai le librerie tornavano a riempirsi di frati “detective”, di maratoneti della storia complessa, di donne e uomini in crisi esistenziale, di testi al profumo di feuilleton con tre morti per forza e un’agnizione per darsi un poco di profumo bianciardiano. E aggiungo che la metastoria fabulosa di Pardi non ha valore solo perché invita a resistere ancora un poco prima di attraversare il vecchio Oceano su navi nuove, per ripercorrere il mare a forza nove attrezzati a dire però tutto e non cedere alle mode della semplificazione, del mercato, dell’indebolimento del pensiero. L’autore vuole che il testo non se ne vada in giro paralizzato, terminato, confezionato, ma si arricchisca delle impressioni, delle emozioni, delle curiosità e degli odi e degli amori del lettore, che venga scritto e riscritto da chi lo legge e poi ne è letto.

Bailamme è parte integrante di un lavoro di rivitalizzazione della scrittura, contribuisce a liberare la lingua italiana dalla palude luogocomunista nella quale stava morendo, offre nuove potenzialità alla parola, è un concerto di parole. Leggetelo, liberatevi dalla corazza e vi accorgerete che non è un testo che difende un punto di vista letterario che è già morto, non è un soldatino letterario che continua a combattere quando un intero modello era ormai esaurito e sconfitto. Al contrario risponde alla morte del romanzo tradizionale con il romanzo dalle mille trame, dai personaggi matrioska che hanno dentro tanti caratteri, tante direzioni, tante potenzialità di sviluppo, tante speranze di vita e di agitazione. Bailamme o della vita mobile.