27 Luglio 2024
Sun

Stefania Nardini, L’ultimo treno da Kiev, Les Flàneurs  Editore 2023, pag. 158.

“Irina Kosenko, classe 1958, tornò a Kiev da sua figlia nel 2018. Era diventata nonna.” Così scrive Stefania Nardini nel suo ultimo romanzo. Eppure aveva lasciato l’Ucraina con l’idea di rimanere pochi anni in Italia, solo per mettere da parte un po’ di risparmi per l’Università della figlia. Con lei entriamo per le strade di Kiev nel decennio che seguì la caduta del muro di Berlino, quando l’Ucraina, divenuta indipendente il 24 agosto ’91, visse un periodo terribile, per mancanza di lavoro, miseria, fame. Un periodo che vide la partenza di una moltitudine di donne verso l’Europa, a fare le cameriere o accudire anziani malati, in modo da sostenere, con le rimesse, l’economia delle proprie famiglie. Leggevano inserzioni allettanti che mostravano le bellezze dell’Occidente, si rivolgevano ad agenzie che preparavano documenti e organizzavano i lunghi viaggi, mentre accompagnatori scaltri superavano con facilità le frontiere e facevano circolare dollari per abbattere ogni ostacolo. Le donne pagavano il viaggio indebitandosi, con la promessa di restituire. In faccia alla miseria dei più, i russi arricchiti che vivevano in Ucraina ostentavano macchine fiammanti e le loro donne vestivano abiti firmati occidentali e si permettevano le terme.

Irina non conosce la libertà, è vissuta sotto il regime sovietico che ha fatto di lei una “Madre della Patria”, donna con alto senso del dovere e “matrioska da riproduzione”, uno dei tanti “pezzi di carne umana proprietà di un regime”. Con la caduta del Muro ha perso il posto di insegnante al Liceo e ha cominciato a guardare i bambini di una scuola materna: da quattro mesi non riceve lo stipendio, intanto la pensione del padre non basta a sfamare la famiglia. Gli uomini che hanno perso il lavoro si danno all’alcool di bassa qualità e le donne rimangono “la spina dorsale di un paese a pezzi”. La fame è dovunque: per le strade di Kiev le donne vendono tutto ciò di cui possono privarsi, offrono arance per poche grivne; agli angoli, immobili, donne anziane tengono la borsetta aperta perché ci caschi qualche moneta, per la vergogna di allungare la mano per l’elemosina. Il paese paga con la miseria il prezzo del trapasso e non è capace di restituire speranza. Le città operaie non hanno più vita, gli stabilimenti termali della cittadina di Truskavets, quelli che ne sono stati la ricchezza, ora sono decrepiti; la presidenza di Kucma vede moltiplicarsi gli scandali e diminuire la libertà nei media. Viene da chiedersi se si stava meglio prima, senza libertà ma col lavoro.

Lo stipendio italiano promesso corrisponde a ben dieci pensioni ucraine -la parola stipendio è la prima che imparano dell’italiano – così Irina parte con un gruppo di donne “tutte figlie del comunismo, ancora sconvolte dal crollo del Muro”. Le immagini delle città europee che attraversano destano meraviglia: sono uscite dal grigio per entrare nel colore. Le ombre calano presto, appena si rendono conto che dietro le inserzioni e le promesse sta il racket che getta i corpi di giovani donne sulla strada della prostituzione e mette in vendita le altre. In Italia, dopo una settimana di permesso, diventeranno clandestine.

Irina è più fortunata di tante compagne di viaggio, “scelta” da Rosa, una “signora in tailleur bluette”, una giornalista che la accoglie in famiglia con attenzione e rispetto, che la introduce alla conoscenza delle trasformazioni sociali, “perché in terra sovietica non circolavano idee di cambiamento”. La scopriamo dunque mentre acquista l’immagine delle donne occidentali e impara piano piano l’Italiano, fortunata tra tante, perché la famiglia che l’ha accolta apre la pratica costosa della regolarizzazione. Dall’Ucraina le richieste di soldi si fanno sempre più pressanti. Ci sono possibilità di guadagnare di più? All’agenzia le hanno detto che in un paese europeo “non bisogna pensare al cuore ma ai soldi”, che “bisogna avere il pelo sul cuore”. Lei è “clandestina, ucraina, matrioska in vendita”. Vincerà il senso del dovere che le hanno inculcato come “Madre della Patria”, o scoprirà un cuore nuovo? Quanto contano il legame e la riconoscenza verso la famiglia italiana?

Stefania Nardini lascia il racconto alla protagonista: è una narrazione asciutta che colpisce e trasuda sofferenza, con un periodare paratattico che non concede spazio all’emozione, col distacco necessario per proteggersi e una corazza costruita sul cuore per reggere al dolore. La figura di Irina travalica ogni limite di tempo e di luogo, adattandosi a tutti, donne e uomini, che scelgono di lasciare la propria terra senza garanzie, con la consapevolezza di rischi immani, quello soprattutto di diventare merce, oggetti da sfruttare e da scambiare, rubato ogni briciolo di dignità umana. Sono persone a cui le testate dedicano spazio solo in occasione di gravi sciagure, e non si tarda a riconoscere la voce della Nardini sulla attuale situazione della informazione: perché Rosa ha abbandonato il giornalismo? “Rosa fu categorica. E mi descrisse come l’informazione in Italia si stava omologando. Mi parlava di banalizzazione. E lei con la sua energia non riusciva e non voleva integrarsi in un sistema che non le apparteneva”. Ma in ogni relazione si dà e si riceve, così la vicinanza tra l’ucraina e l’italiana porterà dei cambiamenti importanti anche nella vita della giornalista.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.