27 Luglio 2024
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Stig Dagerman, Autunno tedesco, Iperborea 2018, pag.160, €16,00. Traduzione dallo svedese di Massimo Ciaravolo

 

Dopo un’infanzia travagliata e una giovinezza segnata da gravi perdite affettive, Stig Dagerman (1923-1954) si fece apprezzare presto come scrittore e in Svezia le sue pubblicazioni gli crearono intorno un’aria di genio. Intanto vicende private lo caricarono di sensi di colpa. Si sentì inadeguato alle aspettative ed ai suoi ideali, probabilmente percepì “nell’ansia di prestazione le catene della più moderna forma di oppressione”. Si tolse la vita a 31 anni.

Definito “socialista libertario”, ha sentito fin da ragazzo il peso della guerra come quello dell’ingiustizia sociale. Sognava una società ugualitaria e pulita, la solidarietà tra gli oppressi, l’amore del prossimo, l’apertura al futuro.

Nel 1946 Stig Dagerman ricevette dal quotidiano di Stoccolma Expressen l’incarico di scrivere una serie di reportage sulle condizioni della Germania dopo il crollo, reportage raccolti poi in volume e pubblicati l’anno successivo con il titolo Autunno Tedesco, ora in edizioni Iperborea.

E’ uno sguardo al di sopra di ogni schieramento ideologico, quello di Dagerman, rivolto alla realtà tedesca del dopoguerra, in una Germania devastata dalla bombe, affamata, dove tutti pagano le colpe del nazismo. Profughi arrivano a valanghe dall’Est, c’è paura del comunismo, la fame non permette di capire il significato della ritrovata democrazia tanto che qualche padre disperato riconosce che si stava meglio prima.

Ma secondo Dagerman queste affermazioni non fanno di tutti i Tedeschi un popolo di nazisti, perché sono parole pronunciate da chi vive in una cantina buia, con i piedi nell’acqua, insieme ai figli piccoli, in mezzo al fumo di una stufa su cui bollono dentro acqua sporca poche patate ghiacciate. Si vive tra le rovine dei palazzi, o ammassati nei vagoni merci abbandonati sui binari morti; si ritiene fortunato chi ha riunito la famiglia in un orinatoio dismesso; la Croce Rossa non arriva ad aiutare tutti, i medici che visitano disgustati i rifugi degli sventurati prendono atto della situazione senza potere fare di più. Le stazioni, che sono memori di terribili adunate e partenze verso i lager, ora sono luoghi dove la gente si ammassa per avere un riparo.

La sofferenza tedesca è collettiva, scrive Dagerman, mentre le crudeltà tedesche, nonostante tutto, non lo furono

In quest’autunno tedesco, segnato da pioggia e freddo, la società è divisa tra poveri, più poveri e meno poveri, questi ultimi  sono  coloro che hanno ricoperto ruoli importanti sotto il nazismo e, con i conti in banca che la bombe non hanno distrutto,  ora se la passano meglio.

Nella lotta per la sopravvivenza il mercato nero dilaga, la città è contro la campagna perché  i contadini alzano i prezzi. Gli insegnanti predicano la moralità ma  i ragazzi, quando tornano a casa, devono darsi da fare per aiutare la famiglia a trovare qualcosa da mangiare. Il discrimine  tra moralità e illegalità è scomparso: nella Germania della miseria la morale ha acquisito una dimensione completamente nuova. I giovani che sono cresciuti sotto la svastica non capiscono il significato di democrazia, allo stesso tempo molti di loro accusano i più vecchi di non aver fatto niente per fermare Hitler.

Nel tentativo di far riacquistare alla Germania un volto dignitoso è in corso presso i tribunali un’azione di denazificazione, in genere una farsa, se l’accusato che a suo tempo ha prestato giuramento al partito ed ha sentito su di sé l’obbligo di obbedienza, ora porta documenti e testimoni a provare la sua innocenza e magari la sua azione di sostegno a qualche ebreo. Riguardo all’obbedienza, “lo Stato ha a propria disposizione i mezzi per ottenerla, anche nei casi più ripugnanti”.

Ci torna alla mente comunque il concetto di banalità del male della Arendt, con la figura di uomini caratterizzati da mancanza di idee, non stupidi, ma senza spirito critico, ubbidienti, uomini che vivono attraverso i condizionamenti esterni che provengono dalla società o da un capo politico: uomini mediocri, inerti, che si macchiano di crimini, in cui il dovere d’obbedienza verso la Stato si scontra e vince sul dovere all’amore ed al rispetto del prossimo.

Ogni luogo della Germania postbellica è marchiato da ricordi di lutto e di dolore, persino i boschi che hanno visto ragazzini impiccati perché disertori della milizia. E’ un Paese malato dove regnano amarezza, disillusione, disperazione.

Corre il pensiero alle guerre attuali che stanno devastando da anni Paesi di grande Storia e civiltà, alle azioni criminali di uomini di potere, allo scontro di forze sulla testa di civili incolpevoli, alle stragi di bambini, alle fosse comuni, alla violenza bestiale del terrorismo. Un reportage di Dagerman da questi gironi infernali avrebbe purtroppo ancora tanto materiale per la condanna e la compassione.

 

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.