27 Luglio 2024
Words

Ritorno alla luna

«Mi pare impossibile che quando c’è la luna noi si dorma nelle nostre case», disse la fanciulla con un leggero ansito, parlando questa volta lentamente. «Quando c’è la luna fuori della finestra chiusa succedono cose strane, e meravigliose» aggiunse come riflettendo; «cioè insomma ci sono cose che corrono navigano girano per conto loro mentre noi dormiamo. Non è strano questo? Non è strano che anche si possa dormire mentre la luna attraversa il cielo?» (Tommaso Landolfi, La pietra lunare)

Questa è la storia di tre uomini che arrivarono sulla luna sul calar della sera del 20 luglio del 1969, dopo che erano partiti dalla terra quattro giorni prima, il 16 luglio. In verità non scesero tutti e tre, ma solo due, Neil e Buzz, perché l’altro, Michael, rimase a orbitare intorno al satellite, sul Columbia, per verificare che tutto andasse bene: una sorta di palo. Quando Neil e Buzz scesero, avevano avuto istruzioni per fare prima un riposino e quindi di dedicarsi al lavoro. Ma erano così eccitati che si dimenticarono di riposare. Prima di scendere, però, si assicurarono che il sistema di telecamere fosse a posto: perché non bastava mettere un piede sulla luna e fare due passi, ma occorreva che sulla terra, laggiù, tutti potessero vedere. Le immagini restituite dalle telecamere che si erano portati da casa, erano a scansione lenta, incompatibili con la normale trasmissione televisiva, insomma non erano granché, bisognavano di qualche accorgimento per essere ritenute credibili. Le immagini dovevano essere visualizzate su un monitor speciale dove esse venivano riprese a loro volta da un’altra telecamera convenzionale, che però – come succede facendo copia da copia – riduceva in maniera significativa la qualità. Le figurine umane saltellanti sul suolo lunare sarebbero apparse come trasparenti, ombre o fantasmi di un mondo lontanissimo, remotissimo: cosa che avrebbe senz’altro accresciuto il senso di meraviglia degli spettatori, chiamati a leggere delle immagini che provenivano da migliaia di chilometri di distanza, così come può capitare allo studioso che legge un manoscritto o un papiro vergato centinaia o migliaia di anni prima. L’anno prima Stanley Kubrick aveva realizzato quello che tutti considerarono subito il suo capolavoro: 2001 Odissea nello spazio, e presto andò in giro la diceria (assolutamente verosimile, considerata l’alta qualità delle immagini) che avesse utilizzato macchine tecnologicamente molto avanzate prestategli dalla NASA. Ma la fotografia del film, firmata da Geoffrey Unsworth e John Alcott, era così raffinata, impeccabilmente suggestiva, che valeva bene per un film di fantascienza in cui il patto tra regista e spettatore si fondava sul rispetto della sospensione della incredulità, così come esige ogni fiction.

Le riprese dal vero sono sporche
Nel caso di un “vero” allunaggio le cose stavano diversamente: come nel caso delle riprese dei campi di sterminio nazisti, i registi chiamati a fare delle riprese dovettero rendersi conto che il perfezionismo avrebbe compromesso la veridicità dei fatti narrati. Insomma i ritocchi non dovevano più di tanto compromettere la nebbiosa visione di un deserto tanto agognato, quel bianco e nero che pareva più incerto dei primi film muti, e che ora attraversava lo spazio interstellare. Il rischio di alimentare dubbi sull’autenticità delle immagini era infatti molto alto. Quando sette anni dopo, il 20 luglio il lander del Viking 1 si staccò dall’orbiter e atterrò sulla superficie di Marte per raccogliere campioni del pianeta e fotografare il nuovo deserto rosso, le immagini a colori erano così nitide che più d’uno sospettò che fosse un atroce scherzo. Mi basterà ricordare che Italo Calvino, il 22 luglio 1976, in un saggio dal titolo emblematico Un deserto in più, rilevava come le immagini che arrivavano da Marte apparivano precise «come una foto di paesaggio terrestre» e lasciavano «una punta di insoddisfazione, perché la stessa fotografia potevano averla presa qui nel cratere di un vulcano o solo nella scarpata di un burrone». Passano due anni: nel 1978 esce il film Capricorn One del regista Peter Hyams, che narra come la NASA, per non perdere i finanziamenti di un programma spaziale, realizza un falso sbarco su Marte, allestendolo in uno studio cinematografico.

“Un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità”
Ma torniamo a Neil e Buzz. Scesero allegri, si girarono intorno, provarono i primi passi come dei bambini che imparano a camminare. Dove andare? Non c’era niente. Un solo orizzonte di infinito niente. Ma non avevano tempo da perdere per farsi delle domande. Le istruzioni erano chiare: prima di tutto, scoprire la targa che attestava l’allunaggio, con quella frase che poi sarebbe finita nei libri di storia («Here men from the Planet Earth first set foot upon the moon, July 1969, A.D. We came in peace for all mankind», ‘Qui, uomini dal pianeta Terra posero piede sulla Luna per la prima volta, luglio 1969 d.C. Siamo venuti in pace, a nome di tutta l’umanità’), sottoscritta dai tre astronauti e dal presidente degli USA, Richard Nixon; poi piantare una bandiera a stelle e strisce (non avendo a disposizione una bandiera dell’Umanità) sul terreno, che si mostrò poco ospitale, per non dire indifferente, a causa della sua natura ruvida e sdrucciolosa. Inutile dire che la piantumazione della bandiera avrebbe richiamato alla memoria di molti compatrioti quel gesto (arcinoto come Flags of our Fathers) che alcuni soldati semplici fecero di issare la bandiera, segno di vittoria e di conquista, durante la battaglia di Iwo Jima, simbolo immortale che un’altra guerra poteva essere vinta, quella con l’URSS per lo spazio.
Infine, assolte queste pratiche celebrative, procedere alla così detta “attività extraveicolare”, che voleva dire verificare la consistenza dell’aria, la pressione della gravità (che era meno peggio di quanto temessero), prelevare dei campioni del terreno lunare qua e là e perciò fare quattro passi, una passeggiatina. Una polvere grigia, friabile, fine, quasi inconsistente, priva di ogni attrattiva, non sabbia né terra, cominciò ad attaccarsi alle loro tute. A Buzz gli venne da esclamare qualcosa come “che magnifica desolazione”, ma la frase – che solo un poeta, amante dei deserti, avrebbe potuto apprezzare – la lasciò ai margini del conciso ed efficace discorso che Neil aveva accuratamente preparato, con la sapienza tecnica degna di un oratore attico, in vista dell’allunaggio: “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità”.

Il salto del canguro
Nel mentre che stavano espletando le ultime operazioni di prelevamento dei campioni, tornava però la domanda: e dopo, che faremo in questo posto? Già sentivano entrambi la voglia di sbrigarsi al più presto e tornarsene a casa. I Russi, anni prima, avevano fatto delle foto al volto nascosto della luna, freddo come un piatto d’argento arrugginito e vaioloso dimenticato in un freezer. Dove invece erano i due astronauti batteva sempre il sole, senza però scaldare la poca aria che la debole forza di gravità riusciva a mala pena a trattenere, e spirava un venticello radioattivo che nessuno di loro, sotto le pesanti tute, riusciva a percepire. Buzz testò i metodi migliori per camminare con disinvoltura, per quanto non avesse da andare in nessun posto, compreso il cosiddetto salto del canguro. Già, in fondo erano andati sulla luna anche per camminare. Purtroppo la disposizione dei pesi nella loro tuta tendeva a farli cadere indietro, era utile assumere un’andatura un po’ chinata in avanti, come di gorilla ubriachi, e poi correre a passi lunghi, ma senza fretta, con un andante allegro, come di chi sta prendendo la rincorsa per un salto in lungo. Per cambiare direzione bisognava programmarlo sei o sette passi prima. Più che andare a passeggio, sulla luna si sarebbe potuto dire di andare a “saltello”.

Rocce sconosciute
Ma il tempo passava e bisognava affrettarsi a raccogliere i campioni di roccia: si cominciò con delle palette; l’operazione richiedeva più tempo del previsto e i due astronauti furono costretti ad abbandonare il lavoro a metà. Alla fine Buzz riuscì a sgretolare qualcosa come sei chili di roccia lunare: sulla terra gli avrebbero detto che era breccia e basalto, roba comune, con tracce di tre nuovi minerali: armalcolite (dal cognome dei tre prodi astronauti), tranquillityite e pyroxferroite. Dalla terra, intanto, chi era ancora in piedi ammirava quello che stava accadendo lassù, in attesa forse di novità strabilianti. Invece non accadeva niente: non era un film di fantascienza, ma un film difficile, lento, probabilmente da restaurare, in cui i personaggi sono piccole sagome senza volto, e non conta tanto la trama quanto il significato dei loro gesti, delle loro parole, e dei silenzi, quando la comunicazione andava via…

Vero o falso? La letteratura sulla luna
Ora, in occasione delle celebrazioni per i cinquanta anni dall’allunaggio, non vorrei sembrare irriverente dicendo che non m’interessa appurare se questo racconto parli di un fatto veramente accaduto. Va bene, è accaduto, anche se da subito qualcuno ha sollevato dei dubbi, che non hanno fatto altro che crescere. Quello che m’interessa è capire come e perché viene raccontato in molte e dettagliate versioni, di cui la presente è solo una possibile; viene però anche smontato e perfino negato, che in fondo è un altro modo per raccontarlo, sostenendone la contraffazione che lo “degrada” (per modo di dire) a leggenda. Penso che l’uomo abbia sempre avuto bisogno di raccontarsi delle storie sulla luna, e che questa dell’allunaggio sia la migliore che si potesse dare nel Novecento, nel secolo che vede, ancor prima di chiudersi, il trionfo della fede nella modernità, cioè della fiducia nella tecnica e nella scienza. Com’è vero che l’uomo aveva sempre sognato di raggiungere la luna: dalla Storia vera di Luciano di Samosata al viaggio di Astolfo sulla luna nell’Orlando Furioso ai primi romanzi di fantascienza seicenteschi – penso al Discorso su un mondo nuovo di John Wilkins (1638), a L’uomo sulla luna ovvero il racconto del viaggio di Domingo Gonsales, il messaggero veloce di Francis Godwin (1638), a L’altro mondo ovvero Stati e imperi della Luna di Savinien Cyrano de Bergerac (1657) – fino al capostipite del filone moderno, Dalla terra alla luna di Jules Verne (1865), che poi avrebbe ispirato il primo film di fantascienza, Voyage dans la lune, cortometraggio di Georges Méliès che apre il Novecento (il film è del 1902), all’insegna di un vecchio sogno che negli stessi anni aveva trovato altro tipo di cultori:  lo scienziato russo Kostantin Ciolkovski, il padre del volo spaziale e il primo a progettare l’ascensore interstellare (del 1903 è il suo primo fondamentale trattato sulla missilistica: L’esplorazione dello spazio cosmico per mezzo di motori a reazione); il fisico tedesco Hermann Oberth, pioniere della missilistica aeronautica, il quale, insieme a Willy Ley, aiutò Fritz Lang alla progettazione e alla realizzazione del razzo con cui i protagonisti di Una donna sulla luna, 1929, ispirato all’omonimo romanzo di Thea von Harbou, partono dalla terra alla ricerca delle miniere d’oro nascoste tra immane distese lunari di candida sabbia. Mentre i progetti del razzo erano veri (e la Gestapo se ne appropriò facendoli sparire per utilizzarli per gli ordigni bellici V1 e V2), i paesaggi lunari erano riprodotti in studio: foto di lavorazione mostrano che veniva rovesciata sul pavimento dello studio sabbia decolorata e ammucchiata in montagne sullo sfondo; furono create anche caverne e grotte, un suolo vulcanico che ribolliva ed emanava vapori. Ma questo sogno prese decisamente la strada del progetto tecnologico, dopo il conflitto mondiale, sfruttando gli studi della missilistica militare nazista di Peenemünde di Wernher Von Braun, e intanto non smarrisce l’antico spirito visionario, innestandosi nel corpus sempre vivo di quella grande tradizione letteraria che aveva messo la luna al centro dei nostri desideri (in cui riluce, nell’etimo de-sidera, spiegato come ‘mancanza di stelle’, una forma di nostalgia), con l’aggiunta di qualche sostanziale interessante elemento nuovo.

Le parole degli astronauti
Proprio dalle testimonianze a caldo dei protagonisti della missione lunare nota come Apollo 11 si evincono due elementi di grande interesse, che ci consentono di riflettere sul “racconto” della luna:

a) il primo concerne quegli aspetti meramente tecnico-scientifici dell’impresa che furono il frutto del lavoro di tanti collaboratori.
Dirà Collins: «Il razzo Saturn V che ci ha messo in orbita è un macchinario incredibilmente complicato, ogni pezzo ha funzionato in modo impeccabile […] Abbiamo sempre avuto fiducia che questa apparecchiatura funzionasse correttamente. Tutto questo è possibile solo attraverso il sangue, il sudore e le lacrime di un numero di persone […] Tutto ciò che si vede siamo noi tre, ma sotto la superficie ci sono migliaia e migliaia di altri, e a tutti questi, vorrei per dire “Grazie mille”.»
Aldrin, inteso a scorgere, oltre il cerchio magico dei collaboratori, l’intera umanità, accentuerà gli aspetti esistenziali e religiosi: «Questo è stato molto più di tre uomini in missione sulla Luna; più, ancora, che gli sforzi di un governo e di un gruppo industriale; più, persino, degli sforzi di una nazione. Sentiamo che questo rappresenti un simbolo della curiosità insaziabile di tutta l’umanità per esplorare l’ignoto […] Personalmente, riflettendo sugli eventi degli ultimi giorni, mi viene in mente un versetto dei Salmi: “Quando considero i cieli, l’opera delle tue dita, la luna e le stelle, che hai ordinato, che cos’è l’uomo che ti ricordi di lui?»

b) il secondo, decisivo in termini di ritorno politico, concerne l’orgoglio che gli USA rispolverò firmando a nome dell’umanità, con targa e bandiera (senza dimenticare l’emblema della missione in cui campeggia la solita superciliosa sullo sfondo del deserto lunare), l’impresa per “battere” l’URSS e riguadagnare una supremazia mondiale, non solo nel campo della ricerca spaziale, ma anche nella leadership mondiale, nel valore esemplare del suo modello capitalistico, fondato su quei valori di democrazia e libertà che una serie di fattori (dal Vietnam al Sessantotto alla Baia dei Porci ai golpe militari latino-americani alla lunga penosa questione interna della segregazione razziale) stavano seriamente compromettendo. Significative le parole di Armstrong: «La responsabilità di questo volo risiede innanzitutto nella storia e con i giganti della scienza che hanno preceduto questo sforzo; in seguito con il popolo americano, che ha, attraverso la sua volontà, indicato il loro desiderio; poi con quattro amministrazioni e i loro congressi, per l’attuazione di tale volontà; e poi, con l’agenzia e le squadre del settore che hanno costruito la nostra navicella spaziale, il Saturn, il Columbia, Eagle e la piccola EMU, la tuta spaziale e lo zaino che era la nostra piccola astronave sulla superficie lunare. Vorremmo ringraziare in modo particolare tutti gli americani che hanno costruito la navicella spaziale; chi ha fatto la costruzione, il design, i test, e ha messo i loro cuori e tutte le loro abilità in quei lavori. A quelle persone stasera, diamo un ringraziamento speciale, e a tutte le altre persone che stanno ascoltando e guardando stasera, Dio vi benedica. Buona notte da Apollo 11.»

USA vs. URSS
Insomma, l’allunaggio ebbe nell’immediato un effetto politico dirompente, quasi a dire: “Nonostante tutti i problemi, gli Stati Uniti d’America sono là: volevano la luna e l’hanno raggiunta!” L’URSS incassò. L’Occidente era in festa. In Africa si continuava a morire di guerra e di fame. Bene, e ora? Ora si torna a casa, ed è quello che fecero gli astronauti, istruiti anche per il ritorno di atterraggio, anzi di ammaraggio, e pronti a ricevere i programmati onori.

A quel primo allunaggio seguirono altri. Non molti, a dire il vero. Misero piede sulla luna in totale nove astronauti, ma la notizia fu sempre meno sensazionale, finiva per passare inosservata. Del 1972 è l’ultimo Apollo, il 17, che sbarca sulla luna: tra le migliori missioni di sempre, a quanto pare, poiché supera i vari record stabiliti dai voli precedenti, tra cui la più lunga permanenza sul suolo lunare, il tempo dedicato all’attività extraveicolare, la più alta quantità di campioni raccolti. Ma si chiudeva un ciclo, nonostante le premesse della partenza: il colore oro che ornava lo stemma, insinuandosi fra il rosso, il bianco e il blu della bandiera, e il divino profilo dell’Apollo del Belvedere che sovrastava quello dell’aquila minacciosa, voleva significare l’augurio di una nuova età dell’oro dei viaggi nello spazio. La PanAm aveva cominciato a raccogliere iscrizioni di ricchi milionari per il primo viaggio turistico sulla luna. La prima grande crisi petrolifera mondiale era alle porte. Probabilmente ha ragione Calvino – in un articolo scritto otto anni dopo il 20 luglio 1969, Il tramonto della luna («Corriere della Sera», 19 giugno 1977 – ad osservare una curiosa analogia tra l’impresa di Colombo e quell’allunaggio: se la prima «fu gestita da una società feudale già in profonda crisi» che, alla scoperta del nuovo mondo, riuscì per qualche tempo a rinviare la soluzione e a «dilatare i suoi problemi su scala mondiale», la seconda fu il punto di partenza di un capitalismo ormai in crisi, «che riesce appena a prevedere come sopravviverà dall’oggi al domani», e intanto «affaccia la sua incertezza su spazi vuoti e pianeti deserti». Fatto sta che invece di aprirsi un nuovo capitolo si chiudeva il racconto che era iniziato con quel clamoroso annuncio al Congresso, dell’allora presidente John F. Kennedy, nel pieno della crisi cubana, il 25 maggio del 1961, poi ribadito nel discorso We choose to go to the Moon, del 12 settembe 1962, con cui Kennedy diede inizio al programma spaziale Apollo.

«…I believe that this nation should commit itself to achieving the goal, before this decade is out, of landing a man on the Moon and returning him safely to the Earth. No single space project in this period will be more impressive to mankind, or more important in the long-range exploration of space; and none will be so difficult or expensive to accomplish…»
‘…credo che questo paese debba impegnarsi a realizzare l’obiettivo, prima che finisca questo decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra. Non ci sarà in questo periodo nessun progetto spaziale più impressionante per l’umanità, o più importante nell’esplorazione a lungo raggio dello spazio; e nessuno sarà così difficile e costoso da realizzare…’
Un proclama politico dietro il quale c’è già un programma di investimenti avviato qualche anno prima dal presidente Eisenhower, e non lo slancio utopico-fantascientifico di qualche romanzo, come quello già vivo in Russia, ai primi del Novecento, di portare il comunismo su Marte, prima che si fosse realizzata la rivoluzione sulla terra (penso a La Stella Rossa di Aleksandr Bodanov, uscita nel 1908). Comunque, dell’Apollo 17 resterà memorabile il motivetto che Harrison Schmitt canticchia saltellando sul suolo lunare, mentre la telecamera segue da una posizione fissa, concludendo con una lenta zoomata: I was strolling on the Moon one day, ‘Un giorno andavo passeggiando sulla luna’. Immagini emblematiche, perché ci si chiede se non ci sia stato un regista dietro quella scenetta che sembra l’affettuosa parodia di un musical.

Le teorie complottiste
Le successive missioni, già in programma, vennero cancellate una dopo l’altra.
Nel 1976 esce un libro che mette tutto in discussione: We never went to the Moon di Bill Kaysing. Non pochi dei dubbi sollevati sulla ricostruzione di quell’impresa lunare verranno confutati, ma si alzano le ombre su quello che sembra la seconda parte dell’epica americana della Frontiera: dopo il West, lo Spazio. Invece del poema eroico senza difetti, ci troviamo davanti a un romanzo-saggio non privo di difetti. Il libro di Kaysing sarà il primo di una serie di libri articoli film documentari che sostengono come la NASA abbia contraffatto le immagini per non perdere i grossi finanziamenti di cui godette nel corso degli anni Sessanta (tanto per dire, i fondi disponibili per la NASA passarono da 500 milioni di dollari nel 1960 a 5,2 miliardi, del bilancio dello Stato, nel 1966), e ripagare così il sostegno del governo, che evidentemente aveva bisogno di risultati per rivalersi della concorrenza sovietica e rilanciare la sua immagine. Passano gli anni, continuano le esplorazioni spaziali, e però nuovi libri e articoli sostengono, verificando le anomalie riscontrate sulle foto diffuse dalla NASA, che le foto prese dagli astronauti statunitensi sulla Luna siano in realtà dei falsi realizzati sulla Terra. Internet si offre come luogo ideale per la propagazione di queste teorie negazioniste. D’altra parte, un libro più volte annunciato dall’ente spaziale per rispondere a questi interrogativi e commissionato a Jim Oberg, esperto in questioni aerospaziali, non è mai stato pubblicato, secondo alcuni esperti per evitare di dare credito alle teorie complottiste.

Calvino e Ortese
Come dicevo sopra, non m’interessa appurare la verità, perché ne esiste un’altra più importante: il complotto (con relativi meta-complotti) è parte integrante del racconto che nasce in un clima già avvelenato dalla tensione politico-militare, prima che dalla libera concorrenza e collaborazione scientifica degli studiosi ansiosi di superare i limiti della conoscenza umana, cioè prima che da quel desiderio di conoscenza su cui Calvino, rispondendo all’Ortese, in una pagina del “Corriere della Sera” del 24 dicembre 1967, saggiamente riportava l’attenzione, preponendo già che bisognava salvare il meglio: «Quel che m’interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d’un rapporto fra noi e l’universo extraumano. La luna, fin dall’antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega. Ma la luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porta a ripensare in un modo nuovo le cose.»

Lo scopo e il senno
È l’augurio migliore che ci si possa fare ancora oggi. D’altronde, per chiudere il dubbio della bufala, come alcuni ebbero a rilevare, se si è trattato davvero di una montatura perché i Russi non hanno detto niente? e come mai centinaia e forse migliaia di persone, che collaborarono al progetto, non si sono accorti dell’inganno tramato, o, conoscendolo, hanno taciuto?
Domande che mi sembrano, per quanto mi riguarda, meno interessanti di quest’altra: in che misura la fiction ha condizionato la realtà per renderla più “reale”?
Oggi, pochi ricordano quanti chili di roccia lunare ci siamo portati dal nostro satellite, né a che cosa sono serviti, né dove sono finiti; nessuno si domanda che effetti hanno avuto (se li hanno avuti) le brevi visite dei terrestri sul suolo lunare; quello che resta sono le “immagini” della scoperta, gli audio restaurati, i salti allegri degli astronauti, il deserto sconsolante, gli interrogativi… Ma in fondo che ci siamo andati a fare?
Quando Astolfo è mandato in missione sulla luna, l’obiettivo è chiaro: recuperare il senno di Orlando, il maggior paladino di Carlo Magno, senza il quale non è possibile chiudere la partita (un’altra partita!) con il nemico saraceno. E Astolfo cavalca con l’ippogrifo fino alle valli del nostro satellite dove ritrova tanti oggetti quaggiù perduti, compresa l’ampolla che contiene il senno del suo amico. Qualcosa da recuperare, non da conquistare. Oggi, con la riservatezza che sappiamo, i cinesi stanno considerando la possibilità di sfruttare minerariamente la Luna, in particolare per l’isotopo Elio-3, possibile fonte d’energia sulla Terra. Intanto, pungolati dall’irreversibile caduta d’immagine, tra guerre sbagliate e mal gestiste, crisi speculative e conti in rosso, gli ultimi governi gringos sono sulla via della realizzazione di un nuovo progetto neocolonialistico globale, e con Bush sono tornati – ma solo a parole – al progetto di installare una base permanente sulla Luna entro il 2020…
Sembra il copione di un film di fantascienza, lasciato a metà, e già visto. Gli USA non è più la grande superpotenza politica ed economica di un tempo che misura le sue forze, in campo scientifico, con un’altra superpotenza, e la guerra fredda è finita, mentre ne è cominciata un’altra: diffusa, a macchie, globale. Intanto, la memoria dell’allunaggio di cinquant’anni fa non ha conosciuto nuovi considerevoli sviluppi: ogni anno resuscita da una teca sterilizzata in cui pare che tutti gli uomini (che gli americani sentono di rappresentare) abbiano messo da parte le discordie per volgersi alla luna come alla realizzazione di un sogno. Il sogno è finito, le discordie continuano.

L’allunaggio è stata una trasmissione, più che una missione
Quella che sopravvive e mette radici nel nostro immaginario è però la possibilità di vedere la terra non solo dallo spazio (le cui foto avevano cominciato ad affacciarsi prima dell’allunaggio), ma dalla stessa luna: il corpo spaziale più guardato e desiderato, ora ci restituisce lo sguardo con il desiderio del ritorno, in una provvisoria reciprocità e circolarità, incrinata dall’impari confronto tra il luogo abitato dai ricordi e dei rimpianti e quello disabitato dei sogni e delle illusioni. Un’ipotesi visionaria che si era affacciata probabilmente, anche nei secoli precedenti, ai protagonisti della Storia vera di Luciano, al Cicerone del Somnium Scipioni, al Lucrezio del De rerum natura, e poi a tanti altri poeti e studiosi, fino agli studi di Keplero (di cui si ricorda il Somnium sive opus postumum de astronòmia lunari del 1609) e di Galileo (a cominciare dal Sidereus nuncius del 1610). Ma la foto offre una chance in più, dal momento che consente allo spettatore di tradurre l’immaginazione in un gesto: quello di poterla stringere in un pugno, di raccoglierla con una mano. Un atto simbolico, che ha i suoi effetti politici collaterali, sigillando l’ideale supremazia sulla terra. Perciò, nella storia delle narrazioni sulla luna, diventa risolutivo l’allunaggio: non è solo un episodio della corsa nello spazio, ma il più importante, quello decisivo. Come confutare quell’atto altamente simbolico dello sputnik lanciato intorno alla terra nell’anniversario della rivoluzione russa, come superare l’impresa di inviare, a un mese da quel primo lancio, una cagnetta e quindi, dopo quattro anni, un uomo intorno alla terra, se non con la missione di tre uomini che sbarcano sulla luna? Ha ragione chi sostiene che la “missione” Apollo è innanzitutto una “trasmissione”, e che sarebbe stata impensabile, e non dico perfettamente inutile, se non ci fosse stata una telecamera a mostrarcela, davanti a noi, come se fosse per sempre. Gli americani non solo sbarcarono sulla luna, ma volevano sbarcarvi, diversamente da Cristoforo Colombo che voleva sbarcare nelle Indie e finì su un altro continente, e questa fu la sua fortuna. La traiettoria volitiva dell’allunaggio ci conduce nel cuore del racconto, nel suo significato politico e antropologico, in quella “verità” che sospinge anche noi a riflettere e a parlarne, forti dell’idea cha la tanto sospirata impresa è così grande che non può non essere messa in dubbio (così come è stata messa in dubbio l’esistenza di Cristo o la guerra di Troia).

Fra la luna e il west
Dunque, gli americani aggiungono il loro racconto a tanti altri sulla luna e, a differenza dei precedenti, loro vogliono “possedere” la luna, piantarci la bandiera, vincere la sfida con i Sovietici, e forse con se stessi (i padri pellegrini, i pionieri del West, i padri della bandiera di Ivo Jima), lasciarsi indietro tutti i problemi sulla terra, le questioni irrisolte o irrisolvibili. Ma qui è il punto: una volta arrivati sulla luna, con la bandiera che segna il nuovo limite di una indiscutibile supremazia, gli uomini si accorgono che non c’è nulla da conquistare. La luna è tutta lì, davanti a loro, nella sua splendida, solitaria desolazione, un corpo celeste inerme, pieno di cicatrici lasciata da migliaia di meteoriti nel corso dei secoli. Il racconto è così povero di contenuti che, sulla terra, per renderlo interessante occorrerà spettacolarizzarlo: gli astronauti, che hanno una formazione scientifica, diventano attori. Discorsi ufficiali, sfilate, bagni di folla prendono il sopravvento sulla riflessione sul “senso” della spedizione. Basta riportare a terra qualche chilo di roccia lunare per spiegare il mistero del satellite che dalla notte dei tempi ha sovrinteso a calendari, costumi, abitudini, modi di dire, idoli, sentimenti dei terrestri? Una cosa è certa: anche questo racconto aggiunge qualcosa alla mitologia della luna che vale la pena sottolineare. In perfetta antitesi con quel che Ariosto aveva immaginato per il suo Astolfo, che proprio sulla luna trova la soluzione dell’intricato disegno del poema, gli uomini che sbarcano sulla luna non trovano la soluzione di niente.

Le vacanze sulla Luna
E allora la luna diventerà uno spazio vuoto da occupare e consumare o resterà come il luogo del desiderio inesaudibile? È notizia, ormai data con un misto di compiaciuta civetteria e fatua ammirazione, quella che fra non molto facoltosi esseri umani potranno permettersi vacanze sulla luna, non per ritrovare il senno, magari nel mare della tranquillità!, tanto meno per chiedere alla luna lumi sulla propria condizione, come avrebbe chiesto Leopardi, o al contrario per schernire la sua irriducibile impassibilità, come avrebbe fatto Gian Pietro Lucini nelle Espettorazioni di un tisico alla luna, o solo per dire – con la memoria alla grande tradizione lirica da Saffo a Tasso a Di Giacomo – quanti pensieri d’amore spira un chiaro di luna; o infine per provare a raccontare il nuovo universo, sulla via di Calvino che parte proprio dalla luna (non a caso La distanza della luna, scritto nel novembre del 1964, è il racconto che apre le Cosmicomiche; e La molle luna, scritto nell’ottobre del 1967, apre Ti con zero), come una grande macchina scientifico-cosmologica i cui nuovi orizzonti incontrano l’arcaica e insopprimibile passione dell’uomo per la mitopoiesi. Lo sfruttamento turistico degli allunaggi risponderà per lo più al bisogno di consumare vacanze originali, o di illudersi di poter racchiudere, anche solo per un istante, il pianeta che ci ha dato alla luce nel palmo di una mano: semplice capriccio o esibizione di vanità?

La fantasia crea il futuro: Space Oddity
Anche i nuovi turisti lunari saranno grandi lettori di libri di fantascienza, come lo erano gli scienziati e gli astronauti sopra citati? Senza la spinta dell’immaginazione, senza idee – confessò una volta Ciolkovskij – non si va lontano nello spazio, perché è la fantasia che crea il futuro. Vero, ed è la poesia che ci fa riflettere sui suoi limiti e ci induce a porci delle domande sul senso di tutto questo, come in quella bellissima canzone di David Bowie, Space Oddity (‘Stranezza spaziale’), pubblicata l’11 luglio 1969, pochi giorni prima che Apollo 11 decollasse, con la memoria forse alla famosa scena del film di Kubrick, là dove uno degli astronauti perde il contatto dalla navicella e si perde nello spazio. Quasi un presentimento: e se ci perdessimo nello spazio? e se fosse bello (e dolce) questo naufragio?

Ground Control to Major Tom
Ground Control to Major Tom
Take your protein pills and put your helmet on
Ground Control to Major Tom
Commencing countdown, engines on
Check ignition and may God’s love be with you
(spoken)
Ten, Nine, Eight, Seven, Six, Five

Four, Three, Two, One, Liftoff
This is Ground Control to Major Tom
You’ve really made the grade
And the papers want to know whose shirts you wear
Now it’s time to leave the capsule if you dare
This is Major Tom to Ground Control
I’m stepping through the door
And I’m floating in a most peculiar way
And the stars look very different today
For here am I sitting in a tin can
Far above the world
Planet Earth is blue
And there’s nothing I can do
Though I’m past one hundred thousand miles
I’m feeling very still
And I think my spaceship knows which way to go
Tell my wife I love her very much she knows
Ground Control to Major Tom
Your circuit’s dead,
there’s something wrong
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
Can you….
Here am I floating round my tin can
Far above the Moon
Planet Earth is blue
And there’s nothing I can do.

 

Base Terra a Maggiore Tom,
Base Terra a Maggiore Tom,
Prendi le tue pillole di proteine e indossa il casco.
Base Terra a Maggiore Tom
Inizia il conto alla rovescia, motori accesi
controlla l’accensione, e che Dio ti assista.
(parlato)
Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque

quattro, tre, due, uno, decollo
Qui è Base Terra a Maggiore Tom,
Ce l’hai fatta davvero
E i giornali vogliono sapere di chi sono le magliette che indossi
È arrivato il momento di lasciare la capsula se te la senti
Qui è Maggiore Tom a Base Terra,
Sto per varcare la porta
E sto fluttuando nello spazio in modo molto strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi
Perché sono qui, seduto in un barattolo di latta,
Lontano sopra il mondo,
Il pianeta Terra è blu
E non c’è niente che io possa fare.
Nonostante sia lontano più di centomila miglia,
Mi sento molto calmo,
E penso che la mia astronave sappia quale direzione seguire
Dite a mia moglie che l’amo tanto, lei lo sa
Base Terra a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti…
Sono qui che galleggio attorno al mio barattolo di latta,
Lontano sopra la Luna,
Il pianeta Terra è blu
E non c’è niente che io possa fare.

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).