27 Luglio 2024
Culture Club

Max Weber all’incanto

  1. 1. Contestualizzare il contesto. La popolazione di Pietrogrado si «sollevò» nei cinque giorni intercorsi tra il 22 e il 27 febbraio del 1917 secondo il calendario giuliano, allora vigente in Russia (per il calendario gregoriano i giorni erano quelli fra l’8 e il 12 marzo). E’ la «famosa» Rivoluzione di febbraio. In definitiva, essa fu una procedura prevista per la stipulazione dei «contratti» dei bolscevichi costituita da una gara in cui sarebbe risultato «aggiudicatario» chi avesse offerto le migliori condizioni per l’edificazione dello Stato Socialista. Ma, nove mesi dopo (il 6 novembre del 1917 – 24 ottobre secondo il calendario russo) quell’anno (nel quale il 24 ottobre l’esercito Austro-Tedesco sfonda il fronte italiano a Caporetto) avrebbe visto un’altra Rivoluzione nel pieno «corso» della Prima Guerra Mondiale – guerra che aveva prodotto la contrapposizione tra due schieramenti: da una parte la cosiddetta «Triplice Intesa» (Gran Bretagna-Francia-Russia) e dall’altra, la «Triplice Alleanza» (Austria-Germania-Italia … Quest’ultima, in Zona Cesarini, alleatasi che l’«Intesa»). Due anni dopo (il 18 gennaio 1919) si aprì la «Conferenza di pace» che doveva negoziare i trattati che avrebbero posto fine alla «guerra»: Rosa Luxemburg e Karl Liebknchet sarebbero stato arrestati da soldati (Freikorps) del governo socialdemocratico tedesco e assassinati durante il tragitto del trasporto in carcere. Tredici giorni prima un certo Anton Drexler aveva fondato un partito: si chiamava «Partito del Lavoro»; un giovane il cui nome era Adolf Hitler e che aveva allora 30 anni ne prese la tessera due anni dopo. Era il futuro Partito Nazionalsocialista. Nel mezzo tra il 1917 e il 1919: il Kaiser Guglielmo II della dinastia degli Hohenzollern (il 29 ottobre 1918) lasciò definitivamente Berlino e riparò in Belgio a Spa. Un mese dopo abdicò (29 novembre 1918). In questa congiuntura storica l’associazione dei Frestudentische Bund, dopo aver letto un libro di un certo Alexander Schwab, chiese a Max Weber (nell’ambito di una rassegna che si intitolava «Il lavoro intellettuale come professione») di tenere due Vortrag (conferenze) intorno a due nuclei tematici: «La scienza come professione» e «La politica come professione». Weber tenne la prima il 7 novembre del 1917 (il giorno dopo della Rivoluzione di febbraio, insomma) e la seconda il 28 gennaio 1919 (dieci giorni dopo l’avvio della «Conferenza di Pace» di Parigi, quella di Raymond Poincaré e Georges Clemenceau). Le due conferenze, raccolte col titolo definitivo che faceva riferimento a quello dell’intera rassegna, furono stampate in volume in quello stesso 1919 dall’associazione che aveva patrocinato l’evento e vennero editi da Duncker und Humblot. Nel 2004 la casa editrice torinese Einaudi le ha ripubblicate col titolo La scienza come professione. La politica come professione con una «Introduzione» di Wolfgang Schluchter e una traduzione di Helga Grünhoff, Pietro Rossi e Francesca Tuccari. Vediamo cosa ha scritto (e detto) Weber …
  2. Wissenschaft als Beruf. Si è scelto di «contestualizzare» (il periodo storico e quindi la dimensione del tempo – lo spazio è ovviamente quello della Germania) perché lo stesso Weber lo fa. Soltanto nella sua disamina della «Scienza come professione» entrano in scena almeno quattro «contesti» a parte quello «universale» del contenitore dei contenitori nel quale ogni cosa e persona è, sua malgrado, «inserita». Ma l’accento non cade tanto sui «contesti» quanto sulla «seconda parola» che ricorre in entrambi i titoli delle due conferenze, anche in Politik als Beruf, e cioè sulla «professione». L’attività lavorativa, il mestiere, l’esercizio, l’arte, l’impiego, l’ufficio, la conduzione, l’occupazione. La domanda di Weber è «invitante»: «Come si configura la scienza come professione nel senso materiale della parola? Cioè come si configura la situazione di un laureato che abbia deciso di dedicarsi professionalmente alla scienza nell’ambito della vita accademica?». A tale domanda fa da «contraltare» quella contenuta nella seconda conferenza: la questione «Di che cosa sia e di che cosa possa significare la politica come professione». Un «lavoro», identico, ri-unisce insieme scienza e politica, che poi è come dire: attività teoretica e attività pratica, fatti e valori, oggettività e soggettività. Ma un «punto di congiunzione» tra queste due «attività umane» esiste? Weber individua tre «caratteristiche» (in un identico «senso» che egli sta cercando) rispettivamente per la scienza e per la politica. E parla di una passione, del porsi al servizio di una certa causa e di un destino – per la scienza. Mentre per la politica indica: la passione, la responsabilità e la lungimiranza. Certo una «passione» alla base di un interesse teoretico è determinante e anche per porsi al servizio della «cosa pubblica» è necessaria una qualche forma di «investimento affettivo». Ma ciò, ce ne dispiace per Weber, suona «sciocco» alle nostre «orecchie» di realisti. E lo stesso Weber, tra l’altro, se ne rende ben conto quando scrive: «Per quanto grande sia tale passione, per quanto autentica e profonda possa essere il risultato è ben lungi dal poter essere garantito». Ci vuole passione, siamo d’accordo ma questo fatto «non risolve» la Beruf (la professione). Esiste qualcosa, invece, come una Sache: rispetto a essa si può scegliere di comportarsi con interesse o con disinteresse. Se, nella scienza, ci si «interessa» di un certo «risultato» sorge il tema etico della «responsabilità»; come, nella politica: quando ci si «interessa» del destino di una nazione sorge, come «risultato», l’«interesse» per il futuro della gente che popola quella nazione. Ma non è tutto. E non è nemmeno metà del discorso di Weber. Infatti i due temi del «destino» e della «lungimiranza» hanno proprio a che vedere qualcosa col tempo del «futuro» del quale si diceva. In questo senso metafisicamente domina il tema della «relazione».
  3. Abitudine alla distanza. Il vero scienziato così come il vero uomo politico deve sempre tenere «separati» i due regni delle «cose» e degli «uomini», del «destino» (sia pur esso popolato da «Le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza») comprensivo di un «tempo» reificato che «sfugge al controllo dell’uomo» e della politica (o della scienza); del tempo futuro e dell’accidentato tempo presente, di quello che è «giusto» (fare e dire) e quello che è «legittimo» fare e dire. Fra questi due «regni» sussiste una «relazione» (Bezihung) che Max Weber interpreta in termini metafisici (nel senso della τά μετά τά фυσκα cioè della «separazione», della «scissione» e della «divisione» tra due «entità» che, essendo «separate», sono dunque in una certa «relazione») come l’«interconnessione» tra attività teoretica e attività pratica realizzata «nel cielo» e non «sulla terra» nella quale, come scrive lo stesso Weber: «Non si può in alcun modo intravedere come verrà a configurarsi esteriormente» la «relazione» tra professione e destino, professione e responsabilità, professione e dedizione a una causa, professione e passione e professione e lungimiranza.
  4. In questa relazione a distanza. In questa relazione a distanza fra responsabilità e disciplina, «onestà intellettuale» e «bravura», «vocazione» e «disincantamento del mondo» si situa l’ἐọγασἰα – il «termine» esatto che descrive (e «limita») la «relazione» tra tanti «pacchetti discreti» che la moderna meccanica quantistica, direbbe sulla scorta di Max Planck, interconnessi da un «energia lavorativa unica». Appunto: il professionismo della scienza e della politica. La relazione della metafisica con l’energia (che è pur sempre la capacità di compiere «un lavoro») è quella che tiene assieme i diversi contesti – compreso quello universale e quello geopolitico delineato da me all’inizio di questa recensione – dei quali si «serve» Weber per «circoscrivere» tutto il suo discorso. Primo contesto: «materiale» (o «esterno»): «La carriera di un uomo di scienza è costituita interamente su presupposti plutocratici. Per un giovane studente privo di patrimonio è infatti straordinariamente rischioso, in generale, esporsi alle condizioni della carriera accademica». Secondo contesto («esterno»): «Tanto all’interno quanto all’esterno, l’antico ordinamento universitario è diventato fittizio. Ma è rimasto, e anzi è sostanzialmente accresciuto, un elemento proprio della carriera universitaria: che un libero docente del genere, e per di più un assistente, riesca finalmente a insediarsi nella posizione di ordinario e perfino di direttore d’ istituto, è una questione che dipende soltanto dal caso». Terzo contesto («interno»): «Al giorno d’oggi la situazione interiore nei confronti dell’esercizio della scienza come professione è condizionata anzitutto dal fatto che la scienza è pervenuta a uno stadio di specializzazione prima sconosciuto e che tale rimarrà in futuro. Non soltanto esteriormente, no certo, ma proprio interiormente le cose stanno in modo che soltanto nel caso di una rigorosa specializzazione l’individuo può acquisire la sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente compiuto in ambito scientifico». Quarto contesto («esterno»): «Ci sono due modi per fare della politica la propria professione. Si vive “per “ la politica oppure “di” politica. Le due alternative non si escludono affatto l’una con l’altra. Al contrario, accade di regola che si facciano – per lo meno idealmente, ma per lo più anche materialmente – entrambe le cose: chi vive “per” la politica costruisce in senso interiore “tutta la propria esistenza intorno a essa”: egli gode del puro possesso della potenza che esercita, oppure alimenta il proprio equilibrio interiore e il proprio sentimento di sé con la coscienza di dare un senso alla propria vita con il fatto di servire a una “causa”. In questo senso interiore ogni uomo serio che vive per una causa vive anche di questa causa. La differenza riguarda anche un aspetto più concreto della questione: quello economico. “Della“ politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una onte durevole di guadagno; “per” la politica , invece, colui per il quale ciò non accade. Affinché qualcuno possa vivere “per” la politica in questo senso economico, devono darsi, nel quadro di un ordinamento fondato sulla proprietà privata, alcuni presupposti, se volete assai banali:  egli dev’essere, in condizioni normali, economicamente indipendente rispetto ai proventi che la politica può dargli», perciò «La direzione di uno stato o di un partito  a opera di persone le quali vivono (nel senso economico del termine) esclusivamente per la politica, e non della politica, implica necessariamente un reclutamento “plutocratico” dei gruppi parlamentari dirigenti». Una volta delimitati questi (e altri, non dimentichiamo che per svolgere entrambe le «professioni» si deve (o forse visto il disastro della politica degli ultimi anni, si dovrebbe dire «si doveva») possedere una certa intelligenza, sentire il senso della propria «vocazione», e inoltre vale anche che «All’uomo deve venire in mente un’idea – e proprio l’idea giusta – per produrre qualcosa di valore») l’autore dell’ L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (scritta in due volumi del 1905 e del 1906 e quindi di 12 anni prima della prima conferenza) ha mano facile a «restringere» il suo problema.
  5.  Max, mi si sono ristretti i problemi. «Che la scienza sia oggi una “professione” esercitata in modo specialistico, al servizio dell’auto-riflessione e della conoscenza di connessioni oggettive, e non un dono grazioso di visionari e profeti, dispensatrici di beni di salvezza e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e di filosofi sul senso del mondo – è certamente un dato di fatto imprescindibile della nostra situazione storica, al quale, se volgiamo restare fedeli a noi stessi, non possiamo sfuggire». «Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro ogni violenza». «Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza». E’ servito «resitringere» il «campo dei problemi»: oltre questa auto-limitazione non si può andare. E questa auto-limitazione (nella scienza come nella politica) è quella interpretata dalla «distanza» tra due singole «attività» i cui «professionisti» devono porsi in «relazione» con il «disincantamento del mondo». Potenze diaboliche, la salvezza, profeti, poeti, visionari, saggi: «l’intellettualizzazione» (e la «razionalizzazione») del «moderno» farà fuori tutto questo: adesso la «relazione» è quella tra la parola e la cosa. E’ quella con una «verità» che non è più rivelata ma cercata. In questo senso Max Weber propone le sue scelte; nella scienza del fatto che sia «sconsigliato» assumere una «posizione di parte» (passionale, diabolica, emotiva, che cerca la salvezza eccetera) e nella politica, della «responsabilità» – che è, prima di tutto, quella in rapporto a una condotta di vita Spezialisierte improntata all’ulteriore «relazione» tra «l’onore» e «le proprie azioni». Restringere attraverso così tanti «contesti» ha fatto venire alla luce una Verantworthung orientata su una metafisica della relazione e dell’energia lavorativa. Il «professionista» della scienza e della politica, alla fine: tiene una certa «distanza» tra sé stesso e il proprio «lavoro» e s’impegna solo fino a dove lo conducono i limiti stessi del proprio lavoro. Ecco svelato finalmente il senso dello specialismo, della responsabilità, della razionalizzazione, del «disincantamento del mondo» e dello stato moderno come l’istituzione alla quale appartiene costituzionalmente «l’uso della forza fisica». In principio era «l’incanto», poi è arrivato con Socrate il «concetto», poi con Galilei e Bacone «l’esperimento» e, adesso, il termine di paragone non è più qualche «potenza» notturna e terribile ma solo il fatto che è emerso «Uno strumento con il quale si poteva costringere chiunque nella morsa della logica, in modo da non lasciarlo uscire senza ammettere o di non saper nulla o che questa è non altra è la verità, l’eterna verità, che non può mai perire come invece passano l’agire e l’indaffararsi degli uomini ciechi».

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.