25 Aprile 2024
Words

Di Maio si loda e si imbroda

Ieri ha detto: “Il PD la pagherà”. Come se fossimo in guerra, come se fossimo a Napoli, nei Quartieri a vendicarsi dello sgarro di uno spacciatore. È lui, il minus habens della nazione, il miracolato di Beppe Grillo, il front-man dell’azienda di Casaleggio che fanno credere di essere un partito politico. Luigi di Maio ambisce alla presidenza del Consiglio e parla di sé come leader, un “leader” che nella prima Repubblica avrebbe fatto l’usciere a Botteghe Oscure o Piazza del Gesù (già l’autista sarebbe stato un ruolo troppo impegnativo per lui). Non per dire che il passato era meglio, ma per testimoniare che, in ogni campo, il futuro non è una linea progressiva verso il bene e verso il miglioramento delle condizioni socio-economico-culturali degli individui e delle società. Anzi, a volte si può degradare, tornare indietro, retrocedere. E Di Maio è la retrocessione più azzardata che la politica abbia messo in scena negli ultimi 20 anni.
A parte quella di ieri però, la sua dichiarazione più fenomenale è di qualche giorno fa, quando ha dichiarato: “Non mi fido del PD, speravo nella Lega”. Strepitoso! Come aver preso per i fondelli gli italiani per 50 giorni, quindi…
La dichiarazione è del 28 aprile, ed è stata rilasciata da questo comico involontario, da questo campione dell’idiozia, all’aeroporto siciliano di Punta Raisi. Singolare che a poche ore dal voto per decidere il governatore della Regione Friuli Venezia Giulia il capo dei 5S fugga al lato opposto dello stivale italico, ma tant’è. Del resto in Friuli i 5S hanno già abbassato la cresta: sono terzi, avendo compiuto il miracolo di far riemergere pure il Partito Democratico. E lì vince inesorabilmente la Lega, con uno dei suoi uomini più intemperanti, Fedriga.

Ma torniamo alla dichiarazione demenziale. Di Maio ha il 32% dei voti. Nel sistema proporzionale sono un bel gruzzolo e impegnano il tenutario di questo consistente portafoglio elettorale alla massima discrezione, all’impegno costante per trovare una quadra di governo soprattutto con chi, insieme a lui, ha avuto un risultato elettorale degno di nota, diciamo il secondo vincitore, nella fattispecie la Lega di Salvini col centro-destra. E invece cosa combinano i due squinternati protagonisti dei 50 giorni di vuoto politico appena passati?
Si sbertucciano su twitter, rilasciano dichiarazioni e tuonano diktat ogni mezza giornata, sfibrando giornali, opinione pubblica, cittadini, loro sostenitori, e pure il Presidente della Repubblica che si sente preso in giro da questi giri di valzer con passi e fendenti da pugilato. Non pago di non aver intrapreso un concreto percorso di discussione e dialogo con Salvini, lo sciocco Di Maio, va alla ricerca dell’alleanza col PD, di cui aveva detto peste e corna prima e durante le elezioni. Come si fa a pensare di poter governare alternativamente o con la Lega o col PD? Solo una forza politica plebiscitaria e antidemocratica come i 5S potevano pensare di attuare una cosa del genere. Eppure, non l’avevano solo pensato, ma addirittura l’avevano fatto teorizzare al professor Giacinto Della Cananea che, incaricato di capire le analogie tra il programma 5S con quelli di centro-destra e PD, aveva attivato brillanti accademici pronti a collaborare “gratis”, o per meglio dire a servire in vista di un premio (che fosse un ministero o un incarico di qualche natura poco importa).
E così siamo punto e a capo. E gli italiani sentono vicino non il governo, ma un’altra campagna elettorale, cioè un’altra elezione alle porte. A meno che Mattarella, come un mago, non tiri fuori un coniglio dal cappello.

Intanto il PD è ostaggio di Renzi che, invece di aspettare la direzione del partito, va a dettare la linea del “non al governo” in televisione da Fazio. Analisi giusta, sia chiaro, ma non la puoi scandire da ex-segretario, dallo schermo tv. Devi avere rispetto per il tuo partito, altrimenti è lo sfascio.
Insomma, se Atene piange, Sparta non ride. Così viene da pensare a quale idiozia politica abbia messo in atto la sinistra italiana negli ultimi due anni. Non gioverebbe ricordarlo, perché viene da piangere, ma serve: se quel famoso dicembre referendario avesse vinto il “Sì” oggi avremmo 315 senatori in meno, una sola Camera legiferante, il doppio turno elettorale e un governo stabile già operante.