27 Luglio 2024
Words

Il dubbio dei vincitori?

Il giorno dopo il referendum costituzionale è stato un “grande” momento. Improvvisamente è parso che i “padroni” tirino la coca, i “partigiani” controllino il Paese, i “servi del potere” rientrino nelle loro fogne, e l’onore formale della Repubblica sia salvo. Peccato che i “padroni” non sono quelli che pippano, i “partigiani” non sono quelli che hanno votato NO, i cosiddetti “servi del potere” (chiamati così dai “partigiani”) dirigono ancora le maggiori testate giornalistiche del Paese, e la sostanza del sistema parlamentare repubblicano fa ancora acqua da tutte le parti.

Matteo Renzi ha voluto forzare la mano, portando gli italiani a uno scontro su una materia costituzionale in cui era difficile che si potesse chiarire, con la bassissima quantità di partecipazione popolare alle discussioni civiche o di partito e la ancora più scarsa qualità della classe dirigente nazionale, le reali esigenze del parlamentarismo italico. Perciò il dibattito referendario è stato quasi esclusivamente ideologico, soprattutto dalla parte dei contrari, di coloro che hanno votato NO. È stato così perché era troppo allettante non acchiappare al volo l’occasione di fare opposizione becera e feroce anche su temi che avrebbero dovuto limitare slogan e banalizzazioni. Ma se Atene chiama, Sparta risponde (per usare impropriamente una frase di Tucidide). Ciò significa che avendo Renzi personalizzato così fortemente il referendum, della serie “o con me o contro di me”, anche i vecchi arnesi della politica (D’Alema, Bersani, Vendola, Berlusconi) e i nuovi populisti (Salvini, Grillo, Meloni) hanno marciato ardentemente uniti a furia di storture e dichiarazioni da sfacelo istituzionale.

Chi, avendo votato NO, oggi si stupisce “candidamente” del fatto che cada il governo o che Renzi si sfili dal compito di traghettare il Paese a nuove elezioni, o è pazzo o, più facilmente, è in malafede.

Ogni azione istituzionale è anche politica, ogni fase costituente è anche politica, ogni referendum è anche politica. È stata politica pure l’assemblea costituente che ha promulgato la Costituzione italiana. Al di là della retorica nazionale sappiamo ormai che la nostra Carta è stata una feroce battaglia sulla sostanza delle parole tra comunisti e democristiani. Che questo abbia dato vita a principi altissimi e a una sintesi eccellente non nega il dissidio e le forti divergenze politiche di partenza. Pensare che si potesse andare a un quesito referendario su temi costituzionali senza che la politica viva ci mettesse lo zampino era follia o ipocrisia.

 

E così, forse, abbiamo perduto un’occasione. Il bicameralismo paritario è un’ingenua e inutile bellezza che rende la Repubblica una bambola inutilizzabile. Nessuno aveva messo in discussione i principi fondamentali della carta costituzionale. Si voleva soltanto aggiornare, come già era stato fatto in passato su richiesta di destra e sinistra politiche, e in parte pure in attuazione delle indicazioni fornite al tempo dai costituenti stessi, alcune parti necessarie a un miglior funzionamento della macchina legiferante. È indiscutibile che in Italia per fare una legge ci vogliono almeno sei anni. È facile che oggi serva una legge su un tema di stringente necessità sociale e che quella legge, se segue pedissequamente l’iter parlamentare che la seconda parte della Costituzione richiede, arrivi a essere promulgata quando quella necessità sociale è venuta meno, non è più attuale, non offre più benefici a coloro di cui si voleva occupare. Oggi, in Italia (come ha fatto Obama in USA, avendo Assemblea e Senato avversi) si usa legiferare per decreti legge, una pratica scarsamente “democratica” ma ineludibile se si vuole rendere efficace l’attività di un governo, da chiunque sia guidato (Renzi, Vendola, Salvini, Grillo).

La riforma avrebbe anche aggiustato il rapporto di mutevole scambio (o divergenze) tra Stato e Regioni, con un Senato dedicato alle autonomie locali, togliendo così un doppione della Camera dei Deputati inutile e costoso e dandogli un ruolo utile di cuscinetto tra potere centrale e poteri periferici.

Ma il popolo, questa magica parola usata a spron battuto dai retori di turno, è stato guidato verso il gattopardesco motore immobile. E chi oggi santifica la festa dello scongiurato pericolo non si rende conto di aver tolto un po’ di possibile ossigeno allo Stato. Sì, perché in un tempo in cui non esistono più i corpi intermedi, in un periodo in cui il senso della comunità e della cosa pubblica non era mai sceso così tanto in basso, dare un po’ più di potere allo Stato centrale sarebbe stata una maniera felice di rispettare il ruolo della democrazia rappresentativa, contro la sciocca, manovrabile e ipocrita democrazia dal basso, pronta a essere agitata e usata dai tanti burattinai di turno.

 

Ma lo stupore dei “difensori” della carta costituzionale verso gli esiti di queste ore del governo e del necessario passaggio di consegne del boccino nelle mani di Mattarella farebbe davvero ridere se non ci fosse realmente da piangere.

Così, tutti coloro che festeggiano e si beano per il risultato del referendum, non si rendono conto forse che politicamente Renzi ne esce ancor più rafforzato. Infatti, avendo personalizzato così tanto il referendum il segretario del PD ha avocato a sé il 40% perdente. E quel 40% è tutto suo. Non del PD, non di qualcun altro. È soltanto di Renzi. Mentre il 60% restante se lo devono dividere i vincitori, vale a dire Berlusconi, D’Alema, Salvini, Bersani, Grillo, Vendola, Meloni, Fitto, Parisi e senz’altro qualche altro galletto che da domani alzerà la testa in questo pollaio di “giusti”.

E se presto si andrà a elezioni, come è facile e auspicabile prevedere, cosa accadrà? Nel caso che ci si accordi per una legge elettorale come dovrebbe volerla Grillo (che sfodera costantemente l’improvvido slogan: “uno vale uno”) più orientata verso un sistema proporzionale, gli esiti sarebbero tendenzialmente di un futuro accordo tra Renzi e Berlusconi (o chi per lui tra i moderati di destra), quindi una sorta di decennio di “grande coalizione”, come avviene in Germania. Nel caso invece che passi una legge elettorale più orientata verso il maggioritario con premio Renzi se la giocherebbe tutta da solo, con quel 40% di italiani che in massima parte gli ha attribuito fiducia.

Qualcuno voleva “salvare” la Costituzione? Che sciocchezze. Verrebbe voglia di espatriare in Austria, dove la sinistra non sta a farsi vicendevolmente le lastre (o le TAC) di chi è più puro, più duro, più rosso. Oppure, in un ultimo guizzo di vitalismo, organizzare una serata in discoteca con De Michelis e i socialisti gaudenti. Perché se stiamo ad ascoltare i soloni della democrazia popolare c’è soltanto da farsi il fegato cattivo. Ma forse l’Italia è irriformabile, perché è una repubblica fondata sul lavoro nel settore della funzione pubblica. Che dire. W l’Italia! W la Repubblica!